Chi è veramente Twigs? Dietro quale delle sue innumerevoli maschere preferisce nascondere se stessa, celare il suo reale volto? Si identifica meglio nella remissiva e sottomessa controparte femminile immortalata nello splendido video di “Papi Pacify”? Oppure predilige scranni e ambientazioni sontuose, apparendo come una novella Regina dei Dannati nelle sontuose inquadrature girate per “Two Weeks”? Anche adesso che Tahliah Barnett è venuta allo scoperto, che le sue apparizioni in pubblico si sono fatte decisamente più frequenti, e che altri artisti addirittura la omaggiano in rimaneggiamenti dei suoi pezzi, appare più sfuggente che mai, un’ombra pronta a dileguarsi al minimo movimento.
Ma ancor prima che sulla sua identità, sarebbe il caso di chiedersi da dove viene, da quale bizzarra dimensione parallela ci ha raggiunto, questa sorta di alieno dalle fattezze femminee, e soprattutto come sia riuscito a reimpostarsi sulle nostre coordinate, superando barriere percettive e steccati spazio-temporali, calandosi perfettamente anche nel nostro piccolo pianeta. Perché, alla volta di un disco d’esordio quale “LP1”, categorie come spazio e tempo davvero non assumono alcun significato, sono termini come altri che nemmeno lontanamente riescono a descrivere un progetto che ha issato l’unicità a suo unico denominatore comune. E’ una furba riappropriazione di stilemi del passato quella che contraddistingue il lavoro? Sono invece dispacci dal futuro, spediti per illuminarci la via? Gli interrogativi si sprecano con FKA twigs, e riuscire a trovare una risposta univoca è impresa davvero inutile, impossibile anche per il più ferrato degli analisti.
Anche così però, con molteplici dubbi ad alimentare il fascino su un’artista mirabilmente elusiva nell’epoca dell’iper-informazione, il disco è tutt’altro che privo di elementi e spunti a sostegno della nostra interpretazione, anzi sa appagare perfettamente la sete di chiarezza mettendosi in luce come lavoro strutturato sotto ogni aspetto, dalla tematica dei testi all’aspetto produttivo, che già ai tempi dei due Ep aveva decisamente brillato di luce propria. In questo senso, l’omogeneità che ne consegue (frutto di una precisa direzione scelta dalla Barnett per la sua musica; impossibile immaginare che uno stuolo di produttori si sia avvicendati in cabina di regia, tra i quali pure Paul Epworth) aiuta del tutto a far propri i brani del disco, oppure, al contrario, ad allontanarsene senza possibilità d’appello, focalizzando con la dovuta attenzione andamenti, contesti e atmosfere, andando dritti al punto della questione senza ulteriori filtri di sorta.
E quindi, qual è la fatidica questione? Se conoscete gli Ep sapete già la risposta, in ogni caso comunque, l’erotismo, il pathos, le pulsioni sessuali che costituivano il tessuto lirico dei testi della Barnett non soltanto vengono amplificati nel più espanso formato dell’album, ma vengono piuttosto riaggiornati, rinnovati, animati di una linfa che pare quasi santificare, elevare a liturgia il più carnale, fisico dei processi. Naturale che il più sensuale tra i generi, quell’r&b tornato prepotentemente di moda tra una generazione intera di artisti e ascoltatori, diventasse il veicolo espressivo d’elezione per una cerimonia officiata con il massimo della partecipazione, con un coinvolgimento che non ha bisogno di grandi dimostrazioni per fare la sua bellissima figura.
Difficile quindi anche soltanto immaginare un accostamento, per quanto velato possa risultare, con gli altri grandi nomi che hanno, in un modo o nell'altro, rivoluzionato la scena. Troppo intellettuale la formula proposta da How To Dress Well, di converso fin troppo “maschile” la visione fornitane da Blood Orange. Semmai, l'utilizzo dell'r&b diventa, tra le altre cose, un pretesto per attualizzare, sfrondare della patina Nineties generi come downtempo e trip-hop, offrendone una versione totalmente inedita, aggiornata alle movenze alternative del nuovo pensare r&b. Il rituale predisposto da Tahliah Barnett non punta quindi in alcun modo alla seduzione, non si presta a un collaudato gioco delle parti; quello è storia passata, un momento già archiviato nella memoria nel suo frastagliatissimo e complesso passo a due, dove l'interlocutore, per quanto mai realmente presente, influenza pesantemente la concezione del disco, non soltanto in senso lirico.
L'esperienza con Arca nella produzione di “EP2” si è rivelata infine un momento fondante, il percorso da seguire e approfondire con la massima convinzione, sfruttandone ogni potenziale apporto comunicativo. E quindi vai di vuoti e tensioni che esplodono dal nulla (anche la sola “Two Weeks”, il momento tutto sommato più lineare del lotto, ne è piena lungo tutta la sua durata, così come i due minuti scarsi di “Preface”, con i piccoli mugugnii ripresi pari pari da “Water Me”), poliritmi inestricabili, bizzarre commistioni a spasso tra generi e attitudini (il taglio dalle venature dreamy di “Lights On”, picco d'intimità in un disco già di per sé scopertamente confessionale; le suggestioni quasi caraibiche che trapelano negli anfratti più nascosti di “Pendulum”). Twigs sa comunque gestire la stratificata impalcatura sonora del suo lavoro con scafata maestria: anche dove il gioco sembra sfuggirle di mano, sbandare dalla linea d'equilibrio, infine l'esito è quello di un'(apparente) esilità di tratto, di una leggerezza che risolve repentine scariche d'umore e voltafaccia stilistici nel più confortante dei sospiri, nel più caldo dei sussurri.
Sussurri sì: per quanto Twigs sia dotata di un'affascinante plasticità vocale (come rimarcato anche dai febbricitanti affreschi vocali nel refrain di “Numbers”, il più struggente j'accuse sentimentale degli ultimi anni), e di una grana timbrica che sa rivaleggiare ad armi pari con una certa Aaliyah (sentire la potenza con cui parte la linea canora di “Closer”, tra i dieci pezzi quella più vicina all'r&b così come lo si intendeva anche soltanto qualche anno fa), le sue interpretazioni si immedesimano talmente tanto nei testi da rendere fortissimo, a tratti quasi insostenibile emotivamente, il loro ascolto. Il femminino, potentissimo e indomabile nel suo reclamare la propria identità, desideri e pulsioni, emerge quindi con una prepotenza sotterranea, strisciante, si schiude al mondo senza paura di mettersi letteralmente a nudo, di ricorrere all'eros senza scadere in volgarità assortite (i gemiti che si ripropongono un po' in ogni dove, il vocabolario disarticolato, in preda ad un rush sempre più intenso, che preannuncia il “refrain” della stessa “Two Weeks”), facendo valere ogni parola, ogni gesto, come un macigno sul proprio interlocutore.
Conturbante e a tratti disturbante, lucido nell'esporsi ma pronto a rompere i freni inibitori quando necessario, “LP1” è la manifestazione più potente di un talento cristallino, di un'artista che, con le dovute attenzioni detterà legge prossimamente. E sì, forse Tahliah Barnett non è di questo mondo, ma conosce le pulsioni umane meglio di chiunque altro.
02/09/2014