Lawrence English non lascia mai niente al caso, nella sua musica come nelle rare occasioni in cui ne parla. Nel presentare il suo nuovo lavoro – l'ennesimo, verrebbe da dire, vista la vastissima discografia, ma comunque il primo datato 2014 – l'australiano ripete più volte la parola “impatto”, suggerendola indirettamente come key word della ricerca che ha portato all'album stesso. Una ricerca imperniata sul tentativo di evadere sempre di più dall'introspezione – pronta a sfociare spesso e volentieri in autocontemplazione – che caratterizza l'ambient music per sua stessa natura, alla quale di recente si sono dedicati alcuni tra i principali protagonisti della scena contemporanea.
Citare su tutti gli ultimi dischi di Ben Frost e Tim Hecker permette di tracciare un'altra importante linea di congiunzione, ovvero quella legata al sacro (o, più correttamente, alla sacralità), seconda ipotetica parola-chiave per inquadrare in maniera immediata questo “Wilderness Of Mirrors”. Se il ben poco entusiasmante “A U R O R A” si limitava a cercare l'impatto edificando invalicabili muri sonori e a usare il sacro come mero condimento, mentre il capolavoro “Virgins” puntava sulla maestosità di cattedrali sì imponenti ma lavorate in ogni dettaglio, il progetto di English si concentra sulle fondamenta del suono e sulla sua evoluzione progressiva, lasciando da parte ogni mira di carattere meramente estetico.
“Wilderness Of Mirrors” non è dunque un disco le cui forme stupiscono al primo ascolto: nessun numero abbagliante alla Frost, nessuna meraviglia da bocca aperta come in Hecker. Al loro posto, una lenta e costante attività di ricamo. Un processo che prende il via con “The Liquid Casket”, il cui muro chitarristico evita l'impeto, preferendo piuttosto una lenta penetrazione dalle parti del Fennesz di “Seven Stars”, favorita dai droni armonici nascosti dietro di esso. Sono sempre questi ultimi a permettere il fluido passaggio alla title track, splendida liturgia dove le distorsioni abbandonano la scena, sostituite dal calore di un coro di vibrazioni.
L'interruzione della breve e ruvida “Guillotines And Kingmakers” non impedisce al rito di proseguire nella maestosa “Another Body”, quasi una definitiva consacrazione in cui il suono si purifica progressivamente, guidato sullo sfondo da una sfumatura melodica che porta a compimento la prima fase del disco. L'oscurità è di nuovo padrona nella ripresa di “Wrapped In Skin”, prima che la scena si sposti nel cosmo aperto per il lungo mantra di “Forgiving Noir” e la tempesta di bagliori di “Graceless Hunter”, paradossalmente vicina ai primi lavori del già citato Hecker. I cori e le distorsioni di “Hapeless Gatherer” chiudono infine il cerchio attorno a uno dei dischi ambient più profondi e suggestivi del decennio.
09/10/2014