Tornano i Mastodon con la nuova fatica “Once More ‘Round The Sun”, tre anni dopo il successo di critica, ma soprattutto di pubblico, di “The Hunter”. Chi sperava in un ritorno alle origini dopo il precedente album, freschissimo ed energico ma ripudiato dai puristi metallari per l’accessibilità media dei brani, rimarrà deluso: prodotto da Nick Raskulinecz (Foo Fighters, Alice in Chains), il disco è erede diretto del suo predecessore e ne mantiene tutti i cambiamenti stilistici. Eppure risulta complessivamente più riuscito, merito in particolare di una ritrovata epicità, ripescata, questa sì, dai capolavori “Blood Mountain” e “Crack The Skye”.
Apre le danze la superba “Tread Lightly” con il suo riffing velenoso e l’inconfondibile ruggito di Troy Sanders, bassista e cantante qui più in forma che mai; una cavalcata che prosegue fino al breakdown melodico e all’assolo finale, elementi che costituiscono la specifica cifra stilistica della maggior parte delle composizioni. Si prosegue con “The Motherload”, singolone muscolare e carico all’eccesso con tanto di intermezzo psichedelico, cantato da Brann Dailor, che oltre a essersi attestato come il batterista più originale e innovativo del metal degli anni 2000, è anche la voce pulita più potente a disposizione della formazione di Atlanta. Una nota di merito va al divertentissimo video della canzone, che parte con le atmosfere sulfuree tipicamente Metallica-anni 90, per poi essere invaso da uno stuolo di sculettanti ballerine hip-hop afroamericane, con tanto di duello finale all’ultima chiappa. Inutile ricordare la pioggia di critiche e accuse di sessismo e razzismo.
Il disco prosegue senza cali di tensione con il riffone à-la Melvins di “High Road”, la spumeggiante title track, l’ocurità epica di “Chimes At Midnight” e le atmosfere psichedeliche della lunga “Asleep In The Deep”, con la voce e il drumming di Dailor e le tastiere del compianto ospite speciale Isaiah "Ikey" Owens in bella mostra. Si giunge così al cuore pulsante dell’album, composto dalla tripletta “Aunt Lisa”-“Ember City”-“Halloween”: la prima è schizofrenia math ai massimi livelli, con ritornello in scream e sorprendente finale con un coro di cheerleader indemoniate che sembrano le nipoti dei Ramones; “Ember City” è gli Iron Maiden pompati di steroidi, mentre “Halloween”, classica come non mai nella sua struttura riff-strofa-ritornello-strofa-ritornello-jam finale con assoli al fulmicotone, sembra la perfetta colonna sonora per una corsa delirante nei carrelli della miniera stregata.
Si tratta di brani orecchiabili, ben lontani dallo sludge-core degli esordi o dalla complessità prog di “Crack The Skye”, ma perfettamente godibili grazie a una scrittura attenta ai dettagli e all’esecuzione superba di una formazione d’eccezione. Qui la fanno da padrone le chitarre del duo Brent Hinds-Bill Kelliher, straordinari nella loro lontananza dagli stilemi del metal moderno: solo chitarre Gibson e amplificatori vintage, per un suono “grasso” che trasuda elettroni, debitore dei classici dell’hard-blues e della psichedelia più che della distorsione compressa di Pantera e compagni.
Gli episodi più trascurabili sono “Feast Your Eyes”, che sembra uscita direttamente da “The Hunter”, e la conclusiva “Diamond In The Witch House”, con l’immancabile Scott Kelly dei Neurosis alla voce, che nel voler recuperare le harsh vocals e la complessità della struttura sembra solo voler strafare.
Un disco che vuole suonare classico e ci riesce senza risultare stucchevole, con tanto rock e poco metal e le voci più pulite che mai; l’ennesima delusione per i fan della prima ora e un ulteriore motivo di ammirazione per una band che è riuscita a suonare sempre diversa su ogni album. Menzione d’onore a Skinner, l’autore della copertina, pittore di incubi psichedelici e mostruosità varie che ben si sposano con la musica potentemente evocativa del combo americano.
13/01/2015