Tre anni dopo “People Changes” non molto è cambiato nell’universo sonoro di Nat Baldwin: la narrazione onirica e leggermente drammatica del collaboratore outsider dei Dirty Projectors, nonché allievo di Anthony Braxton, è ancora intatta. Quartetti d’archi e malinconici bozzetti poetici scorrono senza variabili apparenti, tra sonorità avantgarde, echi di Arthur Russell e tracce di chamber-folk. La novità è che l’autore chiede aiuto a musicisti di spessore come Otto Hauser (Vetiver, Espers, Lia Ices) e Rob Moose (Bon Iver, The National, Antony and the Johnsons) per sperimentare approcci diversi a una materia sonora triste e inquietante.
La sua abilità nel rendere aulico e ambizioso anche il frangente lirico più mesto e timido dona ancora una volta alla sua musica quella ragion d’essere che spesso latita in molte opere ambiziose, perse nel tentativo di depistare con troppe variabili una materia alfine semplice. Sono quindi canzoni scritte al mattino come se fosse già notte (“Wasted”), oppure come quando ti risvegli privo di sogni e provi a immaginare storie fantastiche e strazianti da spacciare come polluzioni notturne della tua mente (“The End Of the Night”), sempre accompagnate da staccato di archi e da una voce in falsetto che sembra voler tradire i principi armonici essenziali.
Il duello tra ritmo e archi di “Knockout” è il germe sonoro più vivace e originale che Nat Baldwin avesse osato proporre, e la trance di folk orchestrale di “In The Hollows” crea un vortice ipnotico dove si concentrano tutte le migliori intuizioni liriche dell’artista, tra una sezione d’archi impetuosa e ricca di lirismo, ritmi frastagliati che cambiano direzione e tempi, e la voce che tradisce qualche emozione in più.
Purtroppo “In The Hollows” non è esente da difetti e perplessità: Baldwin sembra troppo interessato a creare un cliché che possa marchiare le sue evoluzioni e le sue stasi, tanto che al fine l’apporto di Otto Hauser si dissolve tra le braccia di scomposte pop-song come “Cosmos Pose” e la forza innovativa si disperde nei due o tre episodi più incisivi. La paura di mostrarsi sentimentale oltre che intelligente mette inoltre un freno alla musicalità di Nat: la voce non smuove le parole e le composizioni si irrigidiscono tra ripetitività che restano in bilico tra magia e tedio (“Sharpshooter”).
Il nuovo album del musicista americano è un progetto interessante, ma si ha la sensazione che le intenzioni siano più lodevoli del risultato. Quella luce eterna che trasformava in “People Changes” la sofferenza e la poesia in un unico linguaggio è ora più fievole. Nel nuovo album non c’è molto di memorabile: nonostante tela e colori siano di eccellente qualità, l’affresco sonoro resta incompleto.
06/07/2014