Diffidare sempre delle produzioni troppo spinte e sponsorizzate dalla stampa generalista, dagli addetti ai lavori mainstream, o dal comun parlare è un vizio in cui qualsiasi appassionato di musica rischia di cadere. Un pregiudizio reiterato, che ha però troppe volte trovato riscontri effettivi sul pratico per poter essere sradicato. Il debutto in pompa magna di Dario Faini (uno, per chi se lo fosse perso, che nasce sfottendo i Subsonica così e campa oggi scrivendo pezzi tutt'altro che memorabili per il peggio del mainstream nazionalpopolare di casa nostra) salutato da quotidiani nazionali come “il primo italiano in grado di competere con Nils Frahm” non poteva non generare attorno a sé una discreta dose di sospetto. Considerate anche (e soprattutto) le tante produzioni dedite al modern classical che nel nostro paese faticano a trovare lo spazio che meriterebbero.
Volendola prendere nella maniera il più oggettiva possibile, però, non si può negare che in Dardust la sostanza vi sia. Faini non è un raccomandato che ha sfruttato i canali mainstream per pompare il suo progetto, ma un artigiano che scrive canzoni (pessime per “artisti” pessimi) da anni, e dunque qualche tecnica compositiva l'ha fatta sua per bene. Di arte decisamente popular e facilona si tratta, in ogni caso, lontana anni luce dalla raffinatezza e dalla stoffa dei nomi a cui il suo progetto suole venire accostato, ma anche dalla spontanea ed emotiva semplicità di gente come Bruno Bavota e Andrea Carri. Dardust è un progetto che arriva nel posto giusto al momento giusto, ci infila dentro qualche ritmica elettronica e qualche rumore sintetico (non cascateci, Jon Hopkins non c'entra!), i ricami degli archi e melodie sapientemente cesellate.
Tutto questo e nulla più di questo è dunque “7”, e a questo punto tutto sta alla prospettiva con cui lo si vuole guardare. Un disco che al primo impatto potrebbe suonare superficiale e scialbo, ma che col tempo spiega le sue ali e gioca bene le sue carte, per povere che siano. Così un frammento come “Sunset On M.” in una giornata estiva col sole che splende potrebbe funzionare meglio di qualsiasi gemma firmata Einaudi o Cacciapaglia, e l'acquarello di “Angoli di ieri” si adatta alla perfezione a un tramonto sul mare. In apertura e chiusura vi sono poi due frammenti decisamente illusori: la progressione gioisa di “Un nuovo inizio a Neukolln” da un lato e la scoppiettante impressione di “Enjoy The Light” dall'altro, roba che non va certo oltre il gradevole, ma che dimostra una decisa consapevolezza dei propri mezzi.
Ci sono anche episodi decisamente meno riusciti, sbavature come “Invisibile ai tuoi occhi”, dove l'elettronica sembra iniettata totalmente a caso giusto perché si deve, o “In The Clouds”, passaggio new age fuori tempo massimo. E poi c'è il romanticismo da film adolescenziale di “Sommergibile in aria”, in cui la grandeur pacchiana sfiora da vicino il pessimo finto-sophisti del caro Allevi. Da bravo imprenditore mainstream, Faini marcia (consapevolmente, c'è da scommetterci) sui luoghi comuni che hanno portato il modern classical meno impegnato all'odierno successo, senza certo pretendere che il suo gioco non si riveli da qualche parte. Lo fa bene, riuscendo qua e là a persuadere pure chi partiva eleggendo il sospetto a regola di indagine. Non ci stupirebbe se la prossima fermata fosse la soundtrack di un film di Muccino jr., e non il prossimo spot della Barilla.
11/03/2015