Già fondamentale membro dei distinti Dirty Projectors (ancora validi “Bitte Orca”, 2009, e “Swing Lo Magellan”, 2012) la vocalist, chitarrista e multistrumentista Angel Deradoorian vi fuoriesce nel 2009 per mettere a punto proprio l’apporto al sound del gruppo di provenienza. Cosa ricogliere come eredità di quell’esperienza? Far prevalere la grazia postmoderna o approfondire la sperimentazione?
Purtroppo, nel suo primo lungo “Expanding Flower Planet” la novella autrice solista ancora non si decide. I suoi esperimenti ripercorrono St Vincent senza raggiungerne il livello di scioltezza. Boccacce e caroselli vocali diventano decorazioni a stucco nel boogie minore “A Beautiful Woman”, percussioni equatoriali e cori di amazzoni diventano impassibile e spenta punteggiatura nel passo di danza della title track, i due episodi col maggior sentore esotico dell’album. Anche la sceneggiata alla Laurie Anderson “Grow”, per muri di vocali e flauti, suona appena sbozzata. Manca lo stupore, prevale una sorta di fiacco snobismo.
Deradoorian tenta anche la carta dell’oleografia. “Violet Minded” suona come un’isterica sciacquetta silly che fronteggia i Beatles del periodo “Abbey Road”, ma è un tentativo di rendere alieno il pop riuscito a metà. “The Invisible Man” rubacchia la ritmica ai Can di “Mushroom” (non la più ardita delle idee) e i vocalizzi a una poco scalmanata Lisa Gerrard (idem). Solo la breve e umile “Darklord” la riscopre chitarrista cubista e la riallaccia ai momenti migliori dei suoi Dirty Projectors.
L’autrice finalmente si redime, almeno come fiuto armonico, nella canzoncina-giocattolo di “Your Creator”, una nenia elettronica che ricorda favorevolmente la “Für Felix” di Julia Holter, uno dei pochi momenti dell’album a lasciare il segno. Così l’orgia cosmica, vagamente Terry Riley-iana, di “Ouneya”, anche se forzosamente ripetitiva sulla formula magica. Almeno anche la tiritera gregoriana riverberata “The Eye” riscopre poi lo sprint ritmico, e ne risulta la sua lettura dell’electropunk (una che potrebbe insegnare a tutte le Debbie Harry del mondo).
E’ in realtà il seguito di un primo Ep (“Mind Raft”, 2009) e della collaborazione con Avey Tare nei suoi Slasher Flicks (“Enter The Slasher House”, 2014). E’ un album serio e maturo, matusa quasi, e infettato d’un intellettualismo borioso che ne riduce la forza, mascherato però da mostro d’avanguardia. Ogni bendidio di sofisticazioni tecnologiche, ogni possibile assetto d’arrangiamento, sono usati in modo calcolato se non meccanico, senza particolare fuoco. Sottofondo di lusso che piacerà ai passatisti.
11/10/2015