Ma poi le cose vanno a calare; ballate macinate a ripetizione, patina, trucco e poco da dire, la ragazza viene incanalata in un tub(in)o e mandata avanti col pilota automatico fino all'autodistruzione. La parziale svolta verso atmosfere dance di "Glassheart" (2012) e una collaborazione con l'allora sconosciuto Avicii portano pochi frutti. Le viene proposta addirittura "We Found Love" di Calvin Harris, che invece si tramuterà in hit spaccaclassifiche solo in bocca a Rihanna. Quando le quotazioni toccano il minimo, Cowell ha già perso ogni interesse nei suoi confronti, perché il successo delle sue nuove creature One Direction e Little Mix gli sta fruttando ben altri quattrini. Leona Lewis, a questo punto, vale quanto un preservativo usato.
E quindi la notizia della scissione dalla Syco e dell'inizio del nuovo corso sotto Island/Def Jam. "Volevano farmi incidere un album che non mi avrebbe rappresentata, e allora ho preferito andarmene", è stato il commento di Leona a riguardo. Su carta la dipartita viene presentata come amichevole ma probabilmente non lo è stata, perché ogni canzone di "I Am" sembra indirizzata direttamente a Cowell e al suo management - "I am somebody without you!", urla nella title track, mentre nel video di "Thunder" la si vede cadere nel vuoto, una metafora per indicare il suo stato d'animo, combattuto tra la paura e l'ebrezza della libertà dopo un decennio passato a fare il pacco postale.
Forse solo la conclusiva "Thank You" sembra avere parole nostalgiche riguardo al passato, ma per il resto "I Am" si presenta come il disco della rivalsa e della voglia di vendetta, con Leona che a tratti tira fuori una parvenza di unghielli, come nel possente piano-driven "Fire Under My Feet", sicuramente la traccia migliore del lotto.
Ma anni di militanza da diva televisiva sembrano aver irrimediabilmente plasmato voce e stile verso l'irrecuperabile. Nonostante l'assenza di ballate eccessivamente pompose (ricordate "Run"?) il songwriting di "I Am" è ancora fermo ai cardini del ritornello enfatico e delle frasi fatte un po' buoniste e da salotto, mentre la produzione - a cura di Toby Gad - è delle più standard (e anonime) del momento: suoni grossi e ripuliti che amalgamano i singoli strumenti in un unico magma levigato fino al piattume, una moderna "tecnica" rintracciabile ovunque, dalla musica dell'intero squadrone X-Factor fino a Sia, Rita Ora, Jessie J e compagnia bella.
Finiscono dunque col perdersi nella mischia sia la vaga deriva elettronica che anima "Power" che quella dance di "Another Love Song", o i pimpanti ritmi di "Ladders" e "I Got You". Ascolto dopo ascolto, sono pochissime le cose che spiccano all'orecchio, esattamente come gli album precedenti.
Le vicende dietro alla genesi di "I Am" pongono una domanda scomoda: cosa succede ai concorrenti dei talent show una volta finito l'orgasmo della vittoria? Poco, sembra; il nuovo format ha solo portato all'attenzione del pubblico l'intero processo di "costruzione" di una popstar, mentre magari ai tempi di Stock, Aitken & Waterman il tutto avveniva dietro le quinte, ma la sostanza "usa e getta" non cambia. Certamente ogni tanto qualcuno si salva; almeno fino a prima dell'ultimo album Will Young se l'è cavata bene, e anche Rebecca Ferguson era partita in quarta (finché non è stata relegata a fare l'ennesimo disco tributo a Billie Holiday).
Leona Lewis un nome se l'è fatto e con "I Am" mostra la volontà di andare avanti con qualche nuovo germoglio, ma al momento la sua voce è ancora troppo indebitata al passato per potersi dire rinata a tutti gli effetti. Alla fine di questa brutta storia, tra lei e Cowell non ci sono proprio vincitori.
(22/09/2015)