Of Montreal

Aureate Gloom

2015 (Polyvinyl)
psych-pop

People disappear on the wrong side of this revolution
When they resurface, there's a black hole in their skull
People disappear on the wrong side of this revolution
When they'll return, all their childhood memories are dead

 

Ci avevano illusi.
A volerla mettere giù in tre parole, brutale  ma onesta, è questa l’unica sintesi plausibile riguardo al più recente lavoro firmato Of Montreal. Nemmeno il tempo di magnificare in “Lousy With Sylvianbriar”, quel sorprendente ritorno alla concretezza delle loro cose migliori che, ecco, il collettivo statunitense ricasca nella sua cronica e sfarfallante bulimia espressiva. Scritto la scorsa primavera a New York, registrato in forma embrionale ad Athens e ultimato assieme al fido Drew Vandenberg (anello di congiunzione con i Deerhunter) in un ranch dalle parti di Juarez, in Messico, il nuovo “Aureate Gloom” è uscito pesantemente influenzato nelle sonorità dalle più estroverse anime musicali della Grande Mela di fine anni Settanta (dai Talking Heads ai Television, passando per i Suicide), e nei contenuti dalla turbolenta chiusura della relazione coniugale di Kevin Barnes dopo la bellezza di undici anni.

Per spiegare il nuovo album, l’eccentrico songwriter si è affidato a un ossimoro quantomai evocativo, parlando di “sconforto dorato”.  In un album per certi versi affine all’ultimo di un artista altrimenti lontanissimo da lui come Luke Haines (il notevole “New York In The '70s”), la confusione non può che affiorare e regnare sovrana. Anche perché Kevin non si pone freni nel miscelare esperienze personali e criptiche suggestioni, come nell’opener dal sapore politico – ma affollata di simbolismi – “Bassem Sabry”, dedicata all’omonimo blogger egiziano scomparso lo scorso anno.
Altrove prova a immedesimarsi in Tom Verlaine o Patti Smith a spasso per SoHo e il Greenwich Village di una quarantina di anni fa, in un Marc Bolan particolarmente incline alle smargiassate (“Last Rites At The Jane Hotel”) o nell’immancabile spettro di Bowie (“Aluminum Crown”). Oppure lascia campo aperto a passaggi torvi e movimentati che fanno il verso a più attuali istanze indie-rock, darkwave e post-punk, senza peraltro sconvolgere nessuno (“Chthonian Dirge For Uruk The Other”, titolo che è tutto un programma).

Guasconate glam, minimalismo wave e cortocircuiti aulici farciscono allora un nuovo pastiche dalle grottesche velleità autoriali, incoerente ma non così sgradevole. Se è ancora ragguardevole la portata infettiva dei refrain, gli stessi riescono nondimeno disinnescati da quella predilezione per le discontinuità ubriacanti che sposa, con un po’ troppa disinvoltura, plumbei synth-pop e radiose fascinazioni stile Elephant 6. La prima incarnazione barocca della band, felicemente rispolverata nel disco precedente, resta qui, tuttavia, nulla più che una fata morgana. I Beatles in acido di “Cherry Peel” o “Gay Parade” sono infatti lontani anni luce, ed è l’alter ego Georgie Fruit, più imbelle e pittoresco che mai, che torna a rubare la scena a tutti, Kevin Barnes compreso. E’ il trionfo del parossismo frivolo dei Seventies e per l’ascoltatore, stordito dai gridolini di rito, serrare le fila in questo esercito di controfigure tirate alla caricatura diventa un’impresa oltremodo ardua.

Lo schema e le tonalità agrodolci sono riproposti a oltranza così come gli accostamenti pacchiani. E se non arrivano a stuccare come in discacci tipo “Sleletal Lamping” o “False Priest”, di certo non strappano più di un sorrisetto accondiscendente anche al più focoso degli estimatori. Il talento del frontman nel partorire un sontuoso easy-listening con relativo contorno di accorgimenti visionari resta innegabile, ma la misura no, quella il Nostro non ha mai imparato dove stia di casa. E non è semplicemente la sua vena al gigantismo, è il bailamme esasperato a travolgere: troppi riferimenti contraddittori, troppe sovrapposizioni strabordanti e ingestibili accatastate alla meglio. E’ un po’ quel che capita con la copertina, ennesima chiassosa allegoria in un’ormai invidiabile antologia di deliri policromi. Mai stati granché sobri, gli Of Montreal, anche e soprattutto sul versante visuale, ma il troiaio figurativo scelto per l’occasione – un’apoteosi tentacolare – rimane insuperabile come istantanea di un disordine evidentemente generalizzato.

Innesti glassati, loop sui cori, lussuoso assortimento di falsetti e la consueta tendenza schizoide agli elastici cambi di ritmo, l’abbacinante spinta modernista del funk più danzereccio e la sua gaia ibridazione con una psichedelia ormai in disarmo: nella consueta giungla di influenze, dove non manca il riff della zeppeliniana “Immigrant Song” (cannibalizzato nell’assurdo numero di congedo), può anche capitare che la band recuperi per un attimo lo smalto dell’indimenticabile “Hissing Fauna” (la crepuscolare “Estocadas”, molto bella).
La classicità del marchio di fabbrica trova in “Virgilian Lots” la sua rappresentazione forse più convincente, a questo giro. Un artificio che solletica sempre magnificamente i chamber-pop-dipendenti ma che ormai fatica a emozionare, logorato da quasi vent’anni di repliche sempre più stanche. Pezzi carini e floreali come “Apollyon Of Blue Room” non riescono a evitare che quel po’ di credito che il gruppo aveva saputo garantirsi con le ultime due uscite vada dissipato in un amen. La giostra decadente dell’amena combriccola georgiana regala ancora qualche corsa discretamente godibile, ma ne limita l’attrattiva affogandola nel solito magazzino di spunti e luoghi comuni musicali a dir poco frastornanti.

“Aureate Gloom” resta insomma una nuova ardita collezione di divertenti motivetti usa e getta, plasmati da un genio troppo indisciplinato per poter tornare a lasciare un segno profondo.
Ancora una volta Kevin Barnes si è perso nel risvolto sbagliato della sua stessa rivoluzione.

24/03/2015

Tracklist

  1. Bassem Sabry
  2. Last Rites At The Jane Hotel
  3. Empyrean Abattoir
  4. Aluminum Crown
  5. Virgilian Lots
  6. Monolithic Egress
  7. Apollyon Of Blue Room
  8. Estocadas
  9. Chthonian Dirge For Uruk The Other
  10. Like Ashoka's Inferno Of Memory