“I lost my job today, but it’s all the same”
(da "All The Same")
Nathan Williams, ancora lui, sempre lui. Bisogna ammetterlo, nel corso degli anni abbiamo imparato a rivolgerci con simpatia e benevolenza a questo sconclusionato
indie-kid di San Diego, una specie di “nerd 2.0” che trascorre le giornate nel cazzeggio più totale, facendo tutto ciò che è in suo potere per ammazzare il tempo. Riempire l’Internet di fesserie,
dissing e autoscatti improbabili non è che la punta di un iceberg fatto di ozio perenne, alienazione, droghe leggere, alcol, videogame, televisione e, ogni tanto, musica.
Dopo un esordio che prometteva scintille, con i gracchianti lampi surf-punk sparati nell’etere direttamente dalla sua cameretta, Wavves raggiunge il perfetto equilibrio sonoro in “
King Of The Beach”, album che incornicia alla perfezione l’irruenza di Williams in un contesto
hi-fi decisamente più digeribile alle masse. Un approccio più pulito e smaccatamente radiofonico che ritroviamo in forma sempre più evidente in “
Afraid Of Heights”, il "disco della maturità" del perenne adolescente californiano che alla lunga si rivela un mezzo passaggio a vuoto.
Al quinto album di una breve ma intensa carriera inframezzata da svariati
featuring (
Zach Hill, il fratello Kynan nel progetto Sweet Valley e con gli ancor più interessanti Spirit Club), è tempo di fare i conti con un passato glorioso e un preoccupante presente fatto di insipidi intermezzi
pop-punk. In questo senso, “V” sembra rappresentare il tentativo di un ritorno alle origini o perlomeno di un cambio di rotta, ispirato anche dalla recente e riuscitissima collaborazione con i
Cloud Nothings. E quindi giù il piede sull’acceleratore con la divertente doppietta iniziale di “Heavy Metal Detox” e “Way Too Much”, in cui la prima suona figlia legittimissima del
surf-sound abrasivo del fu Re della spiaggia e la seconda offre un gradevole esempio di power-pop sulla falsariga dei maestri
Weezer.
Gli Wavves sono in forma e lo dimostrano anche con “Pony”, agrodolce cavalcata adolescenziale in cui Williams dice addirittura “It gets better”, a dispetto del pessimismo cronico che connota da sempre i suoi testi. Pessimismo, paranoia e alienazione che, va detto, si ritrovano a più livelli praticamente in tutti gli altri pezzi (“Everything sucks if you don’t get your way”, “I get stuck by getting worse, I'm getting worse” e potremmo andare avanti). Pregevoli anche la schizofrenica “My Head Hurts” (palese rimando ai
riffoni dell’indimenticato
Jay Reatard) e il ritornello-killer di “Flamezesz”, che promette di incendiare le già bollenti feste delle confraternite americane.
Ci sono ovviamente i difetti che “
Afraid Of Heights” aveva già palesato, seppur esplosi in misura minore: spigolosità e ruvidezze soffocate da un pop-rock a volte davvero troppo infantile, ricerca affannosa del giro
catchy che non sempre arriva, canzoni deboli (“Heart Attack”) o addirittura noiose (“Tarantula”). Ma tutto sommato in "V" gli episodi dimenticabili sono pochi, il disco fila liscio e veloce lasciandosi ascoltare senza particolare sforzo, impreziosito dalla collaborazione attiva di ciascun membro del gruppo (e questa è una novità, considerando l’attitudine di una band da sempre molto
Williams-centrica).
E alla fine viene da chiedersi qual è (ammesso che esista) il fine ultimo di Nathan e dei suoi Wavves. La risposta non può che essere una sola: divertire e divertirsi, senza poi troppe pretese o velleità. Che il Dio dei party alcolici ce li tenga sempre sani, forti e in
hangover perenne.
09/10/2015