Dylan Baldi nasce nel 1991, l’anno di “Nevermind”, di “Gish”, di “Ten” e di tanti lavori densi di quelle influenze musicali che hanno forgiato lo stile di scrittura di un'intera generazione. Nasce a Cleveland, Ohio, e inizia in età adolescenziale e riversare il proprio teen spirit in registrazioni casalinghe, fissate in cameretta su un hard disk in perfetta solitudine, assemblate con GarageBand, come oggi potrebbe fare qualsiasi ragazzo al mondo. Il punto è che Dylan ha una creatività dirompente, dà vita a una serie di gruppi rock immaginari e li sistema per benino su MySpace, ognuno con la propria paginetta di presentazione.
Una di queste band si chiama Cloud Nothings e, chissà come, arriva a colpire l’attenzione della Bridgetown Records, una piccola label che si offre di pubblicare un Ep, Turning On, un pastiche di lo-fi college rock che lascia ben sperare per il futuro, con qualche slancio ben riuscito, come nel caso del singolo "Hey Cool Kid". Le tracce giungono fra le mani del promoter Todd Patrick, il quale invita l’autore di quelle acerbe composizioni ad aprire una serata a Brooklyn per Woods e Real Estate. L’invito mise per la prima volta Baldi nelle condizioni di dover assemblare velocemente una band per poter suonare i propri pezzi. Alla fine tutto andò per il meglio, e a partire da quel momento la fama del giovane musicista e del neonato gruppo di accompagnamento crebbero in gran fretta: i ragazzi iniziarono a calcare i palchi di gran parte degli Stati Uniti assieme agli altri rampolli lo-fi della nuova scena musicale americana.
Tempo pochi mesi e a inizio 2010 la Carpark Records, etichetta di stanza a Washington, mette sotto contratto come one-man band l’ancora diciannovenne Dylan, ristampando l’Ep d’esordio, arricchito da qualche bonus track, e pubblicando a gennaio del 2011 il primo album, Cloud Nothings, prodotto da Chester Gwazda. Ora Baldi non ha più le limitazioni dettate dall’utilizzo di strumenti di fortuna, bensì uno studio nel quale poter sviluppare idee con qualche comfort in più. L’istinto creativo produce sostanza sonora ed espressiva, ponendosi in scia all’energico indie-pop dei Pains Of Being Pure At Heart (“Understand At All”), addobbandolo di ruvidità garage e impulsivi proclami adolescenziali, che strizzano l’occhiolino al punk-pop collegiale stile Blink 182 (“Not Important”, “All The Time”) e brillano soprattutto lì dove si punta tutto sulla sintesi (interessanti le brucianti “Heartbeat” e “Rock”, che si fermano abbondantemente sotto i due minuti).
Cloud Nothings però non riesce a confermare le aspettative create intorno alla figura di Dylan, ponendosi qualitativamente a un livello non superiore all’esordio, come se l’anno precedente il musicista di Cleveland avesse già esaurito tutte le cartucce migliori. E’ un prodotto senz’altro fresco, contenente abbozzi melodici e riff punk schizzati, ma dal quale emergono ancora evidenti limiti, come nel patetismo facile del giovane incompreso (“Nothing’s Working”, “You’re Getting Older”), con tanto di sconnessi ritagli melodici. Un disco acerbo, nonostante il ragazzo si giochi bene parecchie carte, vedi il viscoso incedere di “Forget You All The Time”, recupero di certe ballate pop-rock anni 90. E’ ancora lo-fi da cameretta, ma il sound inizia a essere più pieno. Per attendere il boom bisognerà attendere ancora qualche mese...
Un solo anno più tardi, il 25 gennaio 2012, esce Attack On Memory, il disco dell’affermazione su scala mondiale di quella che ormai si presenta come una band a tutti gli effetti. Lo scarto in avanti è davvero notevole e fortunatamente critica e pubblico se ne accorgono: l’album cambierà in maniera radicale il percorso artistico di Dylan, finendo citato praticamente ovunque come uno dei dischi alt-rock più belli e importanti dell’anno. Questa volta in cabina di regia si siede niente poco di meno che Steve Albini, notizia che già da sola attira l’attenzione dei media. Albini aiuta Baldi a convogliare in questi solchi tutta la propria rabbia post-adolescenziale, contribuendo ad architettare scenari ricercati e stratificati, che raggiungono lo zenit nei due brani iniziali, i migliori mai realizzati dalla band: i Radiohead immersi nell’acido muriatico del pazzesco crescendo “No Future/No Past”, che esprime tutto il disagio dell’autore sin dal titolo, e il post-grunge allucinato di “Wasted Days” valgono da soli il prezzo del biglietto.
La tensione viene smorzata da episodi più “leggeri” e melodici (“Fall In”, “Our Plans”, “Cut You”, il college-punk “Stay Useless”), ma anche in quei casi le chitarre restano sempre ben in evidenza, disegnando scenari di coinvolgente elettricità. Le dissonanze quasi sonicyouthiane della strumentale “Separation” e l’arrembaggio nirvaniano della tesissima “No Sentiment” completano un menù fra i più ricchi del 2012. La crescita del songwriting di Dylan è evidente, e la voglia di stupire altrettanto, in un album carico di riferimenti che affondano le proprie radici sia nell’immaginario garage indie-rock a cavallo fra 80 e 90 (Pixies e Pavement sono gli esempi possibili), sia nell’urgenza post-hardcore dei primi Trail Of Dead, sia nel seminato delle migliori band alternative o finto-alternative del nuovo millennio (Strokes, Japandroids). Le esplorazioni emotive (o meglio solo “emo”) non abbandonano mai una certa attitudine "canzonettara", con giri armonici di facile presa che non sciolgono però completamente le riserve di molto pubblico, in parte dubbioso sulla reale qualità delle canzoni di Baldi.
Saranno i successivi infuocati live show a dissipare qualsiasi riserva sulle reali qualità dei Cloud Nothings, ormai un quartetto composto da Baldi (chitarra e voce), Joe Boyer (chitarra), TJ Duke (basso) e Jayson Gerycz (batteria). La band è puntualmente invitata a esibirsi in quasi tutti i migliori festival e si ritaglia la fama di gruppo devastante sul palco.
Un’istantanea dei loro live show viene fissata in Live At Grog Shop, registrato dal vivo in un locale di Cleveland il 5 aprile ed edito soltanto su vinile a tiratura limitata a giugno del 2012.
Ulteriori conferme arriveranno due anni più tardi dall’attesissimo Here And Nowhere Else, immesso sul mercato il primo aprile del 2014, sempre su Carpark. Senza più l’aiuto di Albini, la band (ridotta a un trio per la dipartita di Joe Boyer) cerca la propria strada con rinnovato vigore, generando otto inediti altamente abrasivi, senza alcuna pausa o calo propulsivo. Here And Nowhere Else è un album più crudo rispetto al precedente, a tratti rabbioso, che contribuisce in maniera sostanziale a far riconoscere dalla stampa specializzata la grande qualità di scrittura dei Cloud Nothings. Il lo-fi noise-pop stile Japandroids (“Psychic Trauma”, “No Thoughts”) e gli arrembaggi post-hardcore figli dei migliori Trail Of Dead vengono alleggeriti in maniera meno evidente (rispetto al passato) dalle consuete trasfusioni di quel rock fintamente ribelle che sa tanto di Strokes (“Quieter Today”, “Just See Fear”).
La chitarra sventaglia rasoiate su ritmiche incalzanti e imponenti, e contribuisce a costruire un atteggiamento complessivo da neo-punker in grado di convincere tutti, almeno dal punto di vista dei suoni (“Giving Into Seeing”, la conclusiva “I’m Not Part Of Me”), suoni sempre massicci ma che continuano (furbescamente) a esprimere l’esigenza di essere canticchiati. Velocità, tempra e potenza, questi gli ingredienti fondamentali di quella che sta gradualmente diventando una delle formazioni di riferimento del nuovo ordine alt-rock mondiale, in grado di centrifugare negli oltre sette minuti di “Pattern Walks” tutto il meglio del proprio mondo: ganci melodici, liriche post adolescenziali, ritmiche robuste e crescendo da far invidia ai migliori protagonisti della scena post-rock.
Nel 2015 i Cloud Nothings realizzano No Life For Me assieme ai Wavves, altro progetto sbocciato inizialmente come one-man-band di Nathan Williams. Vista la durata (appena ventuno minuti) e la numerosità delle tracce (nove, ma delle quali due sono soltanto brevi intermezzi strumentali), No Life For Me potrebbe apparire come un Ep di transizione: in realtà la portata è ben più rilevante, vuoi per i protagonisti, vuoi per i contenuti musicali che, a dispetto della giocosità degli intenti, si ritrovano (inconsapevolmente?) a fissare i nuovi standard di riferimento del rock alternativo mondiale. Sin dalle prime note di “How It’s Gonna Go” appare chiaro quanto i ragazzi si siano divertiti a realizzare il tutto: è il trionfo di due nerd americani assurti al ruolo di punti di riferimento assoluti per l'intera scena, con la t-shirt dei Sonic Youth saldamento in dosso, oramai trasmutata in tatuaggio indelebile.
Schitarrate e ritornelli catchy si alternano amabilmente, gradevoli dissonanze e spensieratezze assortite sono pronte a rincorrersi, ascoltate “Come Down” ed avrete la perfetta sintesi dei vari ingredienti. E poi date attenzione alla velocità di crociera di “Hard Too Find”: siamo appena a metà tracklist e già il lavoro ci ha più che convinti; lo spartiacque “Untitled II” traghetta verso la seconda parte del disco, ma sono i primi dieci minuti a fissare i crismi di un’estetica alt-pop-rock attualizzata ad uso e consumo degli anni 10. “Nervous”, la title track, “Such A Drug” e la conclusiva “Nothing Hurts”, un affare per sole chitarre elettriche e voci, sono le riuscite conferme che quanto ascoltato sinora non è stato soltanto un abbaglio. Dentro No Life For Me risiedenon un’evoluzione dinamica che lima le asperità malinconiche / claustrofobiche del post-hardcore firmato Cloud Nothings ed esalta lo spirito punk-pop di matrice Wavves dando vita a una sintesi sensazionale, una sorta di aggiornamento del college rock per le nuove generazioni.
Il 27 gennaio 2017 esce Life Without Sound, Disco del Mese su Onda Rock, un lavoro che mostra lo smussamento di molte spigolosità. Il progetto condiviso con i Wavves ha probabilmente contribuito a iniettare nel Dna del gruppo quello spirito punk/pop che lima gran parte della claustrofobica malinconia del passato, facendolo spesso virare verso una scrittura più “solare”, eloquentemente espressa nelle energiche “Things Are Right With You”, “Internal World” e “Sight Unseen”, personali aggiornamenti del college-rock anni 90 a uso e consumo delle nuove generazioni. Dal bouquet sonoro partorito nella cameretta di Dylan questa volta escono anche il proto-punk “Darkened Rings”, la mezza ballad lo-fi in perfetto Pavement style “Enter Entirely” e il singolone electric pop “Modern Act” che si apre con una sorta di omaggio ai Cure di "In Between Days".
Ma le meraviglie che elevano a dismisura la caratura di Life Without Sound, mantenendolo peraltro legato attraverso un saldo fil rouge alle produzioni precedenti, sono poste ai due estremi dell’album: c’è la luce nella sontuosa epicità dell’indispensabile “Up To The Surface”, un instant classic da far ascoltare a tutti coloro cui vogliate mostrare lo stato dell’arte dell’attuale scena indie-rock, e c’è il buio nella tensione ossessiva di “Realize My Fate”, che si fa prima disperazione e poi apocalisse sonica nel denso, imperdibile finale. Life Without Sound è un lavoro che corre il serio rischio di piacere a tanti, con quelle melodie elettrificate squarciate dagli improvvisi slanci di rabbia che saturano l’atmosfera. Un’architettura sublimata in maniera perfetta nei tre minuti e mezzo di “Strange Year”, altra vetta compositiva del disco, nella quale confluiscono anche decisive influenze wave e post-hardcore.
I Cloud Nothings non si fermano: anche il 2018 prevede una loro uscita discografica: Last Building Burning viene diffuso il 19 ottobre. Otto tracce, concentrate in poco più di mezzora, inaugurate dalla brutale “On An Edge”, un devastante hardcore-punk suonato come se la band avesse deciso di disintegrarsi a tutta velocità contro un muro. Si apre così un album denso di teenage angst, prodotto da una formazione in stato di grazia, ancor più diretta che in passato, a tratti persino feroce, cattiva, imbizzarrita rispetto al meno intransigente “Life Without Sound”. Ma come in ogni disco dei Cloud Nothings, anche questa volta convivono in perfetta armonia le due anime della formazione di Cleveland: quella più oltraggiosamente noise (“In Shame” appartiene a questo gruppo) e quella che cerca il gancio friendly, vedi gli stralci di melodia deturpata travasati nelle narcotiche nevrosi di “So Right So Clean” e nelle veloci rotondità indie di “Another Way Of Life”, boccate d’ossigeno dopo una lunga corsa a perdifiato. Nonostante il prepotente caos elettrico che caratterizza la scrittura di Baldi, per ogni “On An Edge” di turno ci saranno sempre una “Leave Him Now” e una “Offer An End” che - pur filando via spedite come treni - si spostano lateralmente, sul versante orecchiabile, a bilanciare gli aspetti più borderline e nichilisti.
Tutto riesce benissimo, brani brevi, senza fronzoli, con una gradita eccezione, gli undici minuti di “Dissolution”, che portano i Cloud Nothings altrove, in una dimensione ulteriore, finora misconosciuta, con un lungo intermezzo strumentale immerso in feedback e improvvisazioni, che nella trasposizione live diverrà sconquasso sonico, e dal minuto otto si avanza come fossimo in una “Art Of Almost” amplificata all’ennesima potenza. “The Echo Of the World” è il perfetto instant classic post-hardcore: partenza sprint, apparente calma centrale, successivo crescendo e closing disperato urlato al mondo, quel “You’ll never take it back” che ci trascina a forza nell’abisso della disperazione, vomitandoci addosso anni di ascolti giovanili mai dimenticati. Ma è l’intero Last Building Burning a serbare così tanta debordante energia da far quasi fatica a contenerla. Energia che continuerà a irradiarsi fin quando anche l’ultimo fabbricato non avrà preso fuoco, come profeticamente annunciato dal titolo. Ai Cloud Nothings da parecchi anni non solo non riesce proprio di scrivere un disco brutto, ma ai ragazzi risulta pressoché impossibile scendere al di sotto del livello di eccellenza. Un caso scuola che siamo strafelici di vivere (e condividere) in diretta. Nuovi termini di paragone per gli anni a venire.
Nei primi mesi del 2020 esplode nel mondo la pandemia da Covid-19, e anche se il lockdown americano non è mai risultato restrittivo come quello imposto dalle nostre parti, Dylan Baldi e il batterista Jayson Gerycz, impossibilitati a tempo indeterminato a intraprendere qualsiasi attività live, colgono l'occasione per iniziare a lavorare a distanza su nuove composizioni, scambiandosi file sui quali a rotazione ognuno incide le proprie parti. In questo modo vengono alla luce le dieci tracce (nove cantate più lo strumentale “Tall Gray Structure”) che compongono The Black Hole Understands, diffuse a inizio luglio 2020, nelle quali tutto torna a basarsi su quella semplicità che deve aver riportato Baldi a quando incideva in cameretta i primi esperimenti come one man band. Il risultato finale possiede una rotondità indie-pop che, pur sempre presente nelle composizioni dei Cloud Nothings, non emergeva in maniera tanto preponderante da tempo. I brillanti giri di “A Silent Reaction” e “Memory Of Regret” (che in un mondo perfetto finirebbe altissima nelle chart) ne sono un fulgido esempio, ma per tutta la durata dell’album si fa fatica a rintracciare quegli intransigenti assalti all’arma bianca sui quali pochissimi anni primifa vennero costruiti album interi.
Grazie alle proprie intrinseche caratteristiche, The Black Hole Understands potrebbe riuscire nell’intento di far breccia nei cuori di nuovi ascoltatori, senza contenere alcun peccato mortale (musicalmente parlando) che possa allontanare i fan oramai consolidati. E se alcune canzoni (“A Weird Interaction”, "Right On The Edge") finiscono per suonare innocue, come spuntate, Baldi cerca di infilare quasi sempre elementi dissonanti per vivacizzare il tutto, come nel finale sonico studiato per rivitalizzare la altrimenti anemica “An Average World”, oppure nelle recrudescenze nineties alt-rock contenute in “The Sound Of Everyone” o “The Mess Is Permanent”. Dissolta qualsiasi traccia di post-hardcore, The Black Hole Understands sarà ricordato come il disco “alt-pop” dei Cloud Nothings, quello attraverso il quale Baldi ha cercato con forza la luce del sole durante il buio periodo della pandemia, arrivando persino ad architettare jingle jangle influenzati dagli anni Sessanta (“Story Thay I Live”). Un album autoprodotto senza alcun intervento di label o canali distributivi, diffuso con modalità in controtendenza rispetto alle attuali abitudini del mercato discografico: le canzoni, almeno inizialmente, non saranno diffuse sulle piattaforme streaming più utilizzate, bensì esclusivamente sulla pagina Bandcamp della band, a scopo di auto- finanziamento post quarantena.
Ma il difficile 2020 ha sancito per Dylan Baldi anche la concretizzazione di un nuovo progetto, stilisticamente molto distante dai Cloud Nothings, denominato Baldi/Gewrycz Duo. Due dischi di jazz sperimentale, il primo pubblicato a marzo su Carpark, Blessed Repair, il secondo a fine ottobre su American Dreams, After Commodore Perry Service Plaza. Tracce dilatate, interamente strumentali, profondamente avanguardistiche, assemblate senza alcun tipo di preoccupazione per eventuali risvolti commerciali. Dylan lascia la chitarra nella custodia e imbraccia il sassofono, in maniera non sempre convenzionale, Jayson Gerycz (presente nel quartetto base dei Cloud Nothings da quando non sono più stati una one man band) si occupa di batteria, percussioni e rumorismi assortiti.
Dylan a Philadelphia, Jayson a Cleveland, bloccati in quarantena ma lanciati in avventurose free session che – racconta lo stesso Baldi – in realtà sono soliti fare non di rado, per spezzare la routine disco-tour-disco-tour della band madre. Per lunghi tratti serene e meditative, le tre tracce si increspano divenendo in alcuni frangenti un affare piuttosto "avant", che rischia di far storcere il naso sia ai puristi della materia (guai spacciarsi per jazzisti in periodi come questi, costellati da numerose uscite di grandissima qualità) sia agli stessi fan dei Cloud Nothings, probabilmente spiazzati e poco inclini a seguire queste inattese derive artistoidi di Baldi. Probabile che in molti continuino a preferire la sua dimensione post-hardcore, o semmai quella alt-pop sbandierata nel recente "The Black Hole Understands".
A fine febbraio 2021 è la volta di The Shadow I Remember, per il quale Steve Albini torna in cabina di regia. Posizionati i microfoni, e premuto il pulsante “Rec”, dagli Electrical Audio Studios questa volta escono undici canzoni che levigano la rabbia giovanile che emergeva ancora fortissima fino a “Last Building Burning”. L’intera carriera dei Cloud Nothings è stata caratterizzata dall’(involontaria?) alternanza fra dischi elettricamente molto spigolosi e altri più “morbidi”, nei quali è la componente indie-rock a divenire predominante, smussando molti spigoli. The Shadow I Remember” si posiziona circa a metà strada, spaziando dal bruciante post-hardcore di “It’s Love”, ai rigurgiti punk di “The Spirit Of”, dal post-grunge dell’ottima “Am I Something” al più armonioso, ma anche più scolastico, guitar-indie di “Nara”.
A brillare di luce propria sono in particolare le tracce che presentano forti elementi distintivi: è il caso di “Oslo”, che parte tenue per poi incresparsi in un articolato crescendo, e di “A Longer Moon”, arricchita da interessanti intrecci chitarristici. Sempre più sugli scudi il lavoro svolto dal batterista Jayson Gerycz, mentre una piacevole discontinuità è portata dalla voce di Macie Stewart degli Ohmme nei ganci melodici studiati per “Nothing Without You”, che resta però troppo simile ad altre canzoni già incise in passato dal quartetto americano. Percepito e interpretabile come un lavoro di transizione, The Shadow I Remember conferma comunque l’elevata qualità compositiva della ditta Baldi & Co., un marchio di origine controllata che continua ad assicurare ottimi standard, nonostante non possa più contare su alcun tipo di effetto sorpresa.
Ci vogliono tre anni per avere fra le mani il lavoro successivo, Final Summer, anticipato da quattro singoli e pubblicato nell'aprile del 2024, disco che mostra l'intenzione di mediare – ancor più che in passato – ruvidità e armonie. L'inatteso interludio, vagamente kraut, funge da incipit per una title track eccitante soprattutto per l’effetto prodotto dagli interessanti contrappunti del basso. Baldi si catapulta in scena cantando una strofa melodica, seguita da un ritornello luminoso.
Anche se la successiva “Daggers Of Light” non risparmia declinazioni noise, appare evidente quanto l’obiettivo della band sia rivolto verso l’elaborazione di un alt-rock più accattivante, come dimostra la serena coda strumentale di “Mouse Policy”. E se con “Running Through The Campus” i Cloud Nothings si slanciano verso orizzonti “classic”, attraverso “Thank Me For Playing” provvedono a portare qualche complicazione, in “On The Chain” continuano a divertirsi con le dissonanze e con la poderosa “I’d Get Along” tornano a scuotere come nei loro momenti più spigolosi.
Contributi di Lorenzo Righetto (“Cloud Nothings”) e Silvio Pizzica (“Here And Nowhere Else”)
CLOUD NOTHINGS | ||
Turning On(Ep, Bridgetown, 2009) | 5 | |
Cloud Nothings(Carpark, 2011) | 5 | |
Attack On Memory(Carpark, 2012) | 7 | |
Live At Group Shop (live, Carpark, 2012) | 6,5 | |
Here And Nowhere Else(Carpark, 2014) | 7,5 | |
No Life For Me (with Wavves, Ghost Ramp, 2015) | 7,5 | |
Life Without Sound (Carpark/Wichita, 2017) | 7,5 | |
Last Building Burning (Carpark/Wichita, 2018) | 8 | |
The Black Hole Understands (autoprodotto, 2020) | 7 | |
The Shadow I Remember (Carpark, 2021) | 7,5 | |
Final Summer (Pure Noise, 2024) | ||
BALDI / GERYCZ DUO | ||
Blessed Repair (Carpark, 2020) | ||
After CommodorePerry Service Plaza(American Dreams, 2020) |
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