A quattro anni dal bizzarro “Four”, improvvisa sterzata rock tanto tumultuosa quanto effimera che faceva seguito all’evanescente prova danzereccia di “Intimacy”, i Bloc Party tornano sulle scene “rinvigoriti” da un cambio di formazione strutturale decisamente importante. Via il buon Moake al basso, e via anche Matt Tong, passato a miglior sponda Algiers. Dentro Alex Thomas, batterista turnista di spessore (Badly Drawn Boy, Squarepusher, Air, Adem) e il bassista Justin Harris dei Menomena.
Kele e Russell pongono così nuove carte in tavola. L’intento è sorprendersi, e sorprendere, o quantomeno provare a energizzare una creatura che da troppo tempo ormai sembra aver perso quel meraviglioso mood wave-rock elargito con sorprendente veemenza nei primi due lavori.
“Hymns” si presenta dunque come l’album della svolta e del riscatto. Tuttavia, è una riscossa che purtroppo non arriva. Lo dimostra fin da subito l’orrenda partenza disco-pop “The Love Whitin”, munita di irritante e coatta tastierina in bella mostra, con tanto di motivetto puberale a fungere da inno d’apertura. Mentre l’andamento notturno e i cori vagamente enigmatici della successiva “Only He Can Heal Me” risollevano solo in parte le aspettative. La scrittura di Kele mostra palesemente ripetuti segni di stanchezza e una prevedibilità di fondo che lascia l’amaro in bocca troppe volte.
La slide-guitar in “The Good News”, con tanto di andatura turneriana e ripartenza southern, non spiazza e resta lì, scipita, eccessivamente asciutta e per nulla polverosa. Al contrario, il soave battito electro-dub di “Fortress” che regge lemme lemme una dolce nenia ben intonata da Kele, incarna il momento più “alto” del lotto, assieme alla sbarazzina scanzonata in scia britpop “Into The Earth”. Le successive traiettorie electro-wave di “Virtue”, e lo svolazzo sintetico in sospensione della conclusiva “Living Lux”, sono invece assolutamente insignificanti e prive di mordente.
A consolarci a piccole gocce, in netta contrapposizione alla "bontà" generale, è la sofferta e tenue melodia gospel di “Exes”. Le parole denotano un sentito disagio, perdizione e voglia di riprovarci, sempre e comunque (“To all the exes/ That I left behind/ These words will fall short/ But I must try”). Ma è davvero troppo poco, e la fiamma resta praticamente spenta.
In sostanza, con “Hymns” ritroviamo una band rivitalizzata da nuove esaltanti prospettive solo in apparenza. A tediarci le orecchie, e di conseguenza ad aprirci gli occhi, è un fiacco guazzabuglio di canzoni dall’effetto pressoché nullo. Teniamoci dunque ben stretti i bei ricordi, riponendo in fretta nel cestino quelli appena generati.
29/02/2016
1. The Love Within
2. Only He Can Heal Me
3. So Real
4. The Good News
5. Fortress
6. Different Drugs
7. Into the Earth
8. My True Name
9. Virtue
10. Exes
11. Living Lux