Roy Montgomery

R M H Q: The Headquarters

2016 (Grapefruit)
avant-rock, avantgarde, instrumental

Formica operaia di quell’underground che dalla madrepatria Nuova Zelanda porta dritto al cosmo, Roy Montgomery e la sua chitarra si sono imposti lungo gli anni e i decenni come un culto assoluto. Il suo manifesto sta nei Dadamah e nello splendido atto unico “This Is Not A Dream” (1991), uno dei massimi esempi di musica implosa, e prosegue nei Dissolve, si irretisce maestosamente negli Hash Jar Tempo, spalleggiato dai Bardo Pond, e si sviluppa in lungo e in largo nei suoi gioielli solisti. E’ una chitarra fradicia di riverbero, eterna, satura e minima allo stesso tempo, ciclica, innamorata di accordi che suonano e risuonano come allucinazioni di mondi possibili.

Dopo un periodo di silenzio che datava ormai quindici anni, (ultimo per cronologia “Silver Wheel Of Prayer”, 2001), Montgomery ritorna con ben quattro dischi, radunati sotto l’etichetta “R M H Q: The Headquarters”. Il primo, intitolato “R: Tropic Of Anodyne”, lo riporta a modo suo (quindi fatato e persino irreale), al cosmo dei folksinger, a suon di canto baritonale, scuro e serioso, Mike Gira-esco, quasi in disparte dietro le quinte, e pennate ampie, panneggi solenni. Dalla title track fatta di tocchi di carillon stordito si passa ai passi marziali e al contempo irregolari, prossimi alla paralisi, di “Seven Faded Dreams”, “Dear Future Loser”, “Hanging Melody”, oltre all’acquatica marcia funebre Johnny Cash-iana di “As The Sun Sets”. Sono canzoni che si vivificano di riverberi stentorei di corde che danno visioni, mentre le confessioni di Montgomery si limitano a brevi epigrammi quasi spazzati dal vento.

Il secondo album, “M: Darkmotif Dancehall”, aperto e chiuso da due ruggenti riscaldamenti strumentali (“Rough Takeoff”, “Rough Landing”), punta tutto sulla distorsione appena sostenuta da un timido ritmo di batteria. “Overdrive” esemplifica al meglio il procedimento, un metronomico disintegration loop che, di battuta in battuta, svaria da una tensione metal a un’abrasione tout-court. Il processo di espansione prosegue con uno dei suoi numeri più selvaggi in assoluto (nonostante la sua solita compostezza ieratica), “Dazed Pig Dreamhome Slide”, con un flirt con lo shoegaze, “At The Gogol Au Gogo”, e con un tributo alle sue radici dark-wave, “Six Guitar Salute For Peter Gutteridge” (il contrasto tra il ritmo ribattuto e le volute quasi sacre è a tratti comico).

“H: Bender” coinvolge la sua direttrice innatamente cinematografica, fin dai titoli. Il metodo, tuttavia, rimane ben saldo nella composizione, a partire dal leggero phasing di “Five Bears At Two Guns Arizona”. Se “I O U Otto” ricalca vistosamente la “Rumble” di Link Wray, pur in un’orbita differente di contrappunti jingle-jangle che ne aumentano la densità, “Pipeline” aggiunge un om che poco a poco rende allucinati i tintinnii che fanno da armonia. “Another David Lynch Thanks No Ice” è uno scontro tra un inciso ansiogeno e una sequela ribattuta carica di atmosfera. Il punto in cui il chitarrista raggiunge un equilibrio tra autocitazione e superamento della sua grammatica rimane però “Later We Looked Up At The Stars”, uno dei suoi numeri più silenziosi e suggestivi, dalle corde approfondite dall’eco, e poi perforate da un’oscillazione serpentina.

I momenti più ambiziosi e illusionistici si trovano comunque in “Q: Transient Global Amnesia”. Lo strimpellio psichedelico di “Riding” (10 minuti) solleva vortici luminescenti di sitar mentre un ticchettio incalza in sottofondo: una scaltra meditazione sul tempo. I 20 minuti di “Weathering Mortality” attaccano come un adagio nella tradizione del romanticismo sinfonico, ma gli impasti sonici nelle retrovie chiamano la voce umana (dapprima imitando un coro, poi chiamando la soprano Emma Johnston a gorgheggiare sibillina) per condurre a una processione verso la sua personale apoteosi. Anche gli accordi trascendenti Popol Vuh del bozzetto “Unshore” riportano alla presenza umana con un’ultima magia, un suono di respiro.

Autore lineare che sviluppa al di dentro, e mai al di fuori, la sua complessità, Montgomery dà un frutto maturo del suo percorso che perde in sodezza e ha le sue ombre di manierismo. Serve prima di tutto come riesame conoscitivo delle sue anime, ma anche come confronto con i talenti della chitarra totale nel frattempo emersi (Eluvium, Dustin Wong, Six Organs). Suonato e registrato in gran segreto tra un’attività e l’altra, qualche antologia e molte pubblicazioni minori (anche una collaborazione con Grouper e una colonna sonora “Music From The Film Hey Badfinger”, 2012), vale non come erede di “And Now The Rain Sounds Like Life Is Falling Down Throuhg It” (1998) e “Allegory Of Hearing” (2000) ma come ripartenza, intima adesione alla sua poetica sacrale, coagulo di stile avvolgente, interpretazione finissima.

18/11/2016

Tracklist

R: Tropic Of Anodyne

 

  1. Tropic Of Anodyne
  2. Dear Future Loser
  3. You Always Get What You Deserve
  4. I Was A Distant Star
  5. Seven Faded Dreams
  6. If And Only If
  7. Hanging Melody
  8. As The Sun Sets

 

M: Darkmotif Dancehall

 

  1. Rough Takeoff
  2. Overdrive
  3. Little Big Star
  4. Dazed Pig Dreamhome Slide
  5. At The Gogol Au Gogo
  6. Six Guitar Salute For Peter Gutteridge
  7. Making Love In A B
  8. Hungover Heroes
  9. Rough Landing

 

H: Bender

 

  1. Five Bears At Two Guns Arizona
  2. I O U Otto
  3. Pipeline
  4. Later We Looked Up At The Stars
  5. A Guitar Called Boomslang
  6. Another David Lynch Thanks No Ice
  7. Chasing Monica Vitti
  8. Cocktails With Can

 

Q: Transient Global Amnesia

 

  1. Otherness
  2. Riding
  3. Last Alarm
  4. Unshore
  5. Weathering Mortality

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