Elementi che caratterizzano in maniera inequivocabile l'appartenenza di questo "quarto album e mezzo" alle accorate sessioni di "Hand. Cannot. Erase.", con lo scopo di raccogliere perlopiù qualche strumentale rimasto orfano o, in un paio di casi, banali canzoni senza ambizione.
Dal tema del rimpianto, principale chiave di lettura del recente album, Wilson tratteggia la struttura di "My Book Of Regrets", che rimarrà l'episodio più compiuto di questa appendice: sembrerebbe quasi un prologo alla tragedia della ragazza deceduta nel proprio appartamento (Under neon lights she walks home/ Back to her apartment, oh a safe way/ Harbored when she locks the door she could slip away); e in modo quasi palese, benché forse inconscio, il secondo riff con la chitarra acustica ricalca la falsariga di quella "Time Flies" che suggellava il canto del cigno a nome Porcupine Tree, e che ammanta il brano di quella malinconia che è l'eterna compagna dell'adultità. Sulla stessa scia, nello strumentale "Year of the Plague" ritornano i colori ad acquerello degli arpeggi hackettiani, stavolta ammantati dal vibrare di un violino.
È poi la volta dell'insipida "Happiness 3", dalle ritmiche quadre e invariabili: non che la semplicità sia di per sé un difetto - tutt'altro, guardando ai risultati sinora dimostrati da solista - ma laddove essa è accompagnata da una magra ispirazione melodica diventa difficile accorgersi di stare ascoltando qualcosa di veramente nuovo. E non fa nulla per dissipare l'effetto patchwork anche il secondo strumentale "Sunday Rain Sets In", che dall'introduzione parrebbe una sorta di ballata dark-jazz nelle vicinanze di Twin Peaks, per poi risolversi una volta di più in un mesto intermezzo crimsoniano.
Per uno scossone come si deve occorre attendere "Vermillioncore" che - organo Hammond a parte - è un puro revival della fase transizionale di "Stupid Dream" e "In Absentia" verso il contagio metal (nello specifico la matrice sembrerebbe la stessa di "Wedding Nails").
Con ciò giungiamo, infine, proprio a "Don't Hate Me": una superflua rivisitazione, poiché di aggiornamento non si può parlare, data la persistente indole retrò che circonda "4 ½" nel suo insieme - con l'aggiunta di un'ancor più superflua cantante (l'israeliana Ninet Tayeb) dagli squeak semplicemente irritanti; nel mezzo non manca nemmeno una turnata di assoli tra tastiere e sax d'occasione su un altezzoso giro di basso, prima della decelerazione che conduce verso l'ultimo reprise.
A mente fredda, dopo un iniziale sentimento di fiducia tradita, non si può dire che questa prematura ricomparsa sugli scaffali sia del tutto trascurabile: potrebbe però essere il segnale di una incipiente difficoltà nel distinguere un'opera di senso compiuto da un assai meno significativo racimolo di b-sides. O forse, a conti fatti, si è trattato soltanto di una nomenclatura infelice: nel conteggio tra il quarto e il quinto opus di Steven Wilson, non c'era davvero spazio per un "mezzo album".
(12/02/2016)