L'avevamo lasciata due anni fa, distrutta per la fine del suo matrimonio e col cuore grondante dolore, angoscia e beat oscuri. Adesso che quella ferita si è rimarginata, Björk è nuovamente pronta a risvegliare i suoi sensi e a cercare l'amore, non soltanto quello carnale per carità, per una freak come lei sarebbe fin troppo banale. È la natura l'oggetto del suo desiderio sessuale, in un bucolico amplesso col creato che però stavolta è tanto distante dai panorami vulcanici di "Homogenic" quanto da quelli coperti dalla fitta coltre nevosa di "Vespertine". Quella decantata in "Utopia" non è la natura brulla ed estrema della sua Islanda ma somiglia più a un rigoglioso paradiso terrestre in cui convivono arpe angeliche e cascate di flauti, cinguettii e versi di cetacei, tanti riverberi di voci e luce ("The Gate") e qualche giocosa drum machine ("Courtship"). Dismessi i panni della moglie abbondonata e quelli della fredda maestrina di scienze, Björk torna a indossare, forse con vera convinzione per la prima volta, quelli di un elfo letteralmente in estasi dinanzi a uno scenario così fiabesco ("Arisen My Senses").
Come in ogni favola che si rispetti, però, il raggiungimento di un lieto fine non sarebbe possibile senza qualche imprevisto. Che si tratti di una ringhiosa bestia feroce o di inaspettate scosse di terremoto (gli strascichi del divorzio in "Sue Me" e una pirotecnica "Losss", i momenti più electro-vintage in scaletta), Björk sembra non farci caso e non perdere la flemma. Armata di ottimismo e del suo flauto continua indisturbata, forse giusto un po' titubante ("Claimstaker"), a fare "Tabula Rasa" dei demoni del passato e declamare l'agognata serenità sino alla placida chiusura con la voluttuosa "Saint" e la conciliante "Future Forever".
È davvero un peccato che per raggiungere l'obiettivo l'islandese smarrisca più di una volta il filo della melodia e si dilunghi un po' troppo ("Blissing Me" e "Body Memory") come spesso accaduto nelle sue ultime prove.
Ad accompagnarla nuovamente in questo lungo e onirico viaggio, un'altra creatura poco convenzionale come il venezuelano Arca (stavolta coinvolto sin dalla nascita del progetto), rispettoso come non mai delle trame björkiane e dei trascorsi della sua musa. Nutre per lei un'ammirazione talmente forte da calarsi senza problemi in un contesto meno cupo del suo solito ma pur sempre barocco e da non farle notare che forse la scenografia di questo abbacinante fantasy è più compiuta della sua sceneggiatura.
Una maggiore concisione avrebbe sicuramente evitato facili ma non campate per aria accuse di pretenziosità, ma è risaputo che quando i sensi sono ormai inebriati e l'euforia raggiunta, è facile perdere la cognizione del tempo che passa.
21/11/2017