Il binomio cultura e linguaggio costituisce il gioco di lenti attraverso cui percepiamo la rifrazione della realtà sociale che ci circonda. Un singolo oggetto per noi occidentali insignificante e univoco come la neve, potrebbe schiudersi in una moltitudine di significati agli occhi di un eschimese, come raccontava il linguista Benjamin Whorf. Tuttavia, il mondo globalizzato ha frammentato le identità culturali, contaminandone origini e cognizioni, rendendo ormai labile la correlazione diretta tra visione del mondo sociale e cultura/lingua di appartenenza.
Kathy Yaeji Lee, in arte semplicemente Yaeji, è un paradigma interessante di contaminazione culturale e linguistica. Di origini sudcoreane (e non solo di nascita; conosce perfettamente la lingua), ma di stanza a New York da diversi anni, la giovanissima
producer ha cominciato a farsi notare emergendo molto rapidamente dall’
underground della Grande Mela con soli due Ep. Il primo mini-disco omonimo era una raccolta di cinque brani di stampo deep house/dance cantati da lei stessa con un timbro lievissimo, dalle tonalità quasi dream-pop,
au rebours rispetto alle solite tendenze r&b dei
vocalist di provenienza
house music. Altra peculiarità dell’esordio discografico di Yaeji era l’utilizzo del coreano – seppur per brevi passaggi – come a siglare le proprie origini. Un piccolo assaggio di una house profonda,
abstract ma anche pop, in linea con quanto intuito dall’altra parte del globo da
Kedr Livanskiy.
Il secondo Ep della
producer arriva a poco più di sette mesi dal precedente, ma la ricetta è già cambiata. Il nuovo quintetto di brani svela una Yaeji ancora più onirica, nell’atto di approfondire una visione maggiormente ambientale dell’
house music.
L’inizio del disco è affidato a “Feelings Change”, che spande una soffusa base sintetica, su cui Kathy Lee sillaba lentamente il testo. Lo sfondo elettronico sfiora le atmosfere di
Kaythlin Aurelia Smith con una campionatura di arpeggi ed echi di voci.
Al calare del silenzio, è il momento di “Raingurl”, svolta hip-hop per Yaeji, che unisce le influenze
k-pop del suo paese d’origine a quel
rapping sui silenzi che talvolta personaggi come Saba o Vince Stamples riescono a intavolare tra un
sample e un altro. Il brano alterna momenti di
flow mormorati in inglese e coreano (come se stesse rivelando un segreto) a passaggi house con un
refrain che non tradisce il genere, ripetendo allo sfinimento “Make it rain/ Girl, make it rain”. La base scelta per “Drink I’m Sippin On” approfondisce il versante hip-hop verso le tendenze più recenti (dice di essersi ispirata a Wintertime, giovane emergente dalle sonorità trap), ma con bassi profondissimi e una sempre più dilagante presenza della lingua coreana, utilizzata in chiave litanica persino nel ritornello.
Sembrano essere proprio quegli scambi tra silenzio e suono, mediati da
sub-basses, il punto di forza della
producer coreano-americana, e lo dimostra all’ombra dell’ambigua e minimale “After That”, che tra silenzi e abissi sonori rievoca
Elizabeth Fraser, o la sua odierna reincarnazione ambient-pop
Kelly Lee Owens.
Chiude un mini-disco fatto di cenni, introspezione e qualche affilata considerazione sociale, una cover: la “Passionfruit” di
Drake viene inizialmente reinterpretata fedelmente, per poi perdersi in troncature delle strofe, coagulazioni sonore,
delay eterni, che trasformano il brano r&b in un lontano
loop in dissolvenza sotto l’incedere di pennellate ambient.
La realtà di Yaeji è raccontata attraverso parole apparentemente fredde, ma estremamente dettagliate. Una visione espressiva inscindibile dalla cultura che le appartiene, ma al contempo indecifrabile e non categorizzabile in Occidente e Oriente, le cui influenze si fondono senza più dirimersi. Una scrittura anche inattesa per un personaggio proveniente dalla musica elettronica, che aggiunge un pizzico di interesse per un eventuale album completo, capace di superarsi ancora una volta.
16/11/2017