Quando un musicista viene definito outsider, ci si riferisce spesso allo status artistico. Nel caso di Brian Christinzio (aka B. C. Camplight) essere un outsider è una condizione quasi naturale, un elemento vitale e necessario del proprio essere.
L’artista americano non ha quasi mai rispettato le regole della conformità sociale e intellettuale: dislessico e impossibilitato dal poter leggere la musica, mentre i suoi coetanei s’innamoravano del grunge, ha imparato a suonare a orecchio, concentrando l’attenzione sulla composizione; vittima di una forte ipocondria che lo induceva a pensieri morbosi sulla morte, ha lottato contro i suoi demoni sviluppando un carattere incline alla gelosia e alla competitività.
Di conseguenza non è stato facile per Brian accettare il fallimento commerciale dei primi due album pubblicati dalla One Little Indian, ma ancor di più rimettersi in sesto in seguito alle disavventure verificatesi dopo il trasferimento a Manchester e il successo critico del ritorno discografico targato Bella Union: “How To Die In The North”.
Espulso dall’Inghilterra per non aver rispettato i termini di rinnovo del visto, a causa di una grave ferita alla gamba che gli impediva qualsiasi movimento, B.C. Camplight ha dovuto annullare una prevista tournée ed è ripiombato nella depressione, con alcol e droga come unico conforto.
“Deportation Blues” è dunque un ritorno ancor più sofferto.
Rientrato in Inghilterra e rimessa in piedi la back-up band, il musicista si spinge ben oltre l’istrionico e non molto commerciale pop sbilenco dei precedenti album, varcandone i confini con un indolente spirito noir.
L’apparente caos delle nove canzoni e il continuo muoversi in più direzioni contemporaneamente anche all’interno di uno stesso brano, potrebbero far pensare a un disco nevrotico, disordinato, al contrario Brian usa le stesse architetture degli Xtc e l'eleganza formale di Todd Rundgren per plasmare un insieme di spunti in un suono organico eppur mutevole.
C’è un insano umorismo dietro “Deportation Blues”, a volte istantaneamente percepibile, come nel rock’n’roll alla Suicide “I'm Desperate”, altre volte ben camuffato da malinconiche ballate alla Beach Boys (“Midnight Ease”) forgiate con imprevedibili arrangiamenti che suonano stranianti e coinvolgenti.
L’attenzione ai particolari e la cura dei dettagli donano all’album il fascino da cult-record tanto caro ai fan degli outsider del pop-rock: c’e un pizzico di Alex Chilton dietro l’uptempo alla Xtc di “Fire In England”, mentre il jazz-blues di “Hell Or Pennsylvania” ha la stessa versatilità di un brano di Elvis Costello o di John Lennon. Ma c’è tanta carne al fuoco anche in brani come “I'm In A Weird Place Now” e la title track (dagli Air ai Jesus And Mary Chain), da far saltar sulla sedia sia un amante del power-pop che del noise-rock.
Da una vita ricca di amarezze e sconforto, il musicista ha estratto la collezione più completa ed entusiasmante della sua carriera, toccando vertici poetici alla Bill Fay-Randy Newman (“I'm In A Weird Place Now”) o attigui al Nick Cave più addomesticabile (“Until You Kiss Me”): altri tasselli di un puzzle tra i più eclettici e originali degli ultimi tempi.
14/10/2018