Avrei giurato che dopo il controverso e spiazzante album del 2015 “West Kirby County Primary”, non si dovesse più evocare il passato di Bill Ryder-Jones come chitarrista dei Coral. Speranza inutile, perché il musicista inglese non è riuscito ancora a marchiare il territorio, restando ancorato nell’immaginario come l’ex-membro della band britpop innamorata del folk psichedelico angloamericano. La strada scelta dal musicista di West Kirby, Merseyside, non è stata facile da percorrere; lo stile di scrittura, a volte indolente, non sempre ha giovato al musicista. Le ambizioni orchestrali di “If…” (ispirate a un libro di Italo Calvino) sono ancora in attesa di un’attenta rivalutazione critica, ed è senza dubbio emblematico che il terzo album abbia diviso nettamente in due il fronte delle opinioni, giocandosi la palma ora di miglior album dell’anno, ora di delusione cocente.
Bill Ryder-Jones ha commesso, in verità, il grave errore di confrontarsi con una musicalità ricca di sofferente e struggente lirismo, senza avere dalla sua parte un profilo altrettanto doloroso e travagliato. E' infatti in questa premessa ideologica che spesso risiede il diverso apprezzamento per quel folk slow-core che va da Bill Callahan ai Sophia e passa per i Red House Painters e i Pavement.
Peccato, perché Bill Ryder-Jones riesce a catturare tutta l’essenza di quel dolore che attanaglia le sue fonti d’ispirazione, e lo fa coinvolgendo una musicalità ricca e affabile, tra chitarre e violoncelli che scuotono gli arrangiamenti alla stessa maniera dei Shack di Michael Head o degli Echo & The Bunnymen (“John”), con una vulnerabilità sonora che è granitica, ruvida, per certi versi più affine al rock americano che a quello inglese.
“Yawn” non è un album facile da sviscerare in pochi ascolti, il musicista non s’era mai addentrato in maniera così decisa nel suo lato oscuro, le canzoni sono gelide, sudicie, estenuanti (“Time Will Be The Only Saviour”), a volte intrappolate in quel lirismo malinconico che Nick Drake e Morrissey hanno conosciuto ed esplorato fino a perdersi (“Recover”). E’ incredibile come Bill Ryder-Jones sia a suo agio in queste nuove vesti sonore, la densità di alcune ballate è a volte difficile da rendere con le parole (esemplare la progressione dal melodico al ruvido di “There's Something On Your Mind”), è un po’ come immaginare i Cure alle prese con un album in bilico tra il grunge e il post-rock (l’eccellente “Don't Be Scared, I Love You”), o come Elliott Smith che prende a calci i Buffalo Tom per aver alzato troppo il volume (“Mither”).
L’impressione ricorrente è che il musicista abbia composto l’album in un catartico stato di grazia, quasi inconsapevole della grossa quantità di emozioni che metteva in moto con le sue esternazioni liriche (“There Are Worse Things I Could Do”), catturando la straziante bellezza della sofferenza con alcune delle canzoni più riuscite del suo repertorio (“No One's Trying To Kill You” e la già citata “Don't Be Scared, I Love You”,). “Yawn” è una deliziosa sequenza di brani in bianco e nero, ma sono i grigi e le sfumature a delineare in fin dei conti la forza e l’energia della proposta del musicista inglese.
Non è comunque un album limpido o cristallino il nuovo progetto di Bill Ryder-Jones, perché il dolore si nutre dell’ambiguità e dell’incertezza, ed è in proprio da questo subdolo fascino che si rischia di essere catturati prima di rendersi conto del beffardo e ironico titolo del nuovo disco del musicista inglese. Sì, perché lo sbadiglio (yawn) questa volta non è frutto della noia, ma dell’empatia che queste dieci canzoni riescono a creare con l’ascoltatore.
07/12/2018