Dilly Dally

Heaven

2018 (Partisan)
alt-rock

Alcune formazioni, solitamente quelle molto giovani, il successo e le pressioni che questo comporta proprio non lo sopportano. E gli soccombono, finendo con lo sciogliersi dopo uno o due dischi. Ma a volte ritornano, dopo aver approfittato dello iato per rinfrescarsi le idee e tornare più organizzati e risoluti. Dopo aver fatto gli anticorpi, come si suole dire. È questo il caso anche dei Diddy Dally da Toronto, che dopo il buon successo critico del loro esordio “Sore” avevano perso il loro tassello più prezioso, la cantante e chitarrista Katie Monks. Che però, dopo un lungo periodo di riflessione, ci ha fortunatamente ripensato. La pausa ha fatto molto bene alla band, la cui scrittura oggi appare molto migliorata. Laddove “Sore” si adagiava spesso sulla particolarità della vocalist e presentava strutture molto grezze, “Heaven” è composto da nove canzoni molto diverse tra loro e che spesso cambiano in corso d’opera.

Katie ha una voce incredibilmente peculiare, una di quelle che o le si ama o le si odia. Una voce che è una contraddizione continua. Avete presenti quelle caramelle gommose, super-colorate e zuccherine, che però appena le poggi sulla lingua ti pungono con la loro essenza acida? E’ più o meno questo quello che succede ascoltando la Monks cantare. Quando se ne sta tranquilla, solitamente nelle strofe, sembra un’innocua sirenetta – qualcosa di molto simile a una Hope Sandoval deprivata della sua sensualità - ma esplode sovente, trasformandosi in una specie di baby-arpia, bambina dell’esorcista in camicia di flanella. Ha anche una discreta estensione, la Katie, che però non può mantenere senza che la voce le si strappi, generando così un effetto speciale aggiuntivo. Prendete “Sober Motel”, ad esempio, dove un urlo lancinante si leva sulle chitarre tumultuose, si espande fino a sfilacciarsi e poi plana lento verso il suolo, come un velo, o una ragnatela.

Intorno a questa vocalità troviamo gli anni 90 radiofonici più brutali, una giungla di chitarroni roventi e bassi minacciosi che fanno gracchiare gli amplificatori. Un paragone azzeccato è quello con le Hole, ma la band preferisce parlare di doom metal fatto vibrare di energia e messaggi positivi. Una canzone si intitola difatti proprio “Doom” e verso il centro introduce un riff mastodontico che richiama il genere. “Sorry Ur Mad” guarda invece all’Inghilterra degli shoegazer e, durante il finale sonico, innesta lo strillo granuloso di Katie in un flusso di feedback supersonici. Il suono di “Heaven” è molto aggressivo, pesante e raramente si concede rallentamenti – le ballad, almeno in partenza, “Believe” e “Bad Biology” - ma le sue melodie levitano comunque altissimo per lasciare cadere come pioggia i rifulgenti messaggi di libertà, autostima e amore della band.

I 90’s vengono richiamati anche dalla copertina sfacciatamente kitsch, con il nome della band scritto a caratteri geometrici a incombere su un puttino di ceramica sfigurato come lo smiley dei Nirvana. In effetti sarebbe facile bollare questo sophomore dei Dilly Dally come l’ennesimo tassello del sempre più ridondante revival anni 90, può dunque capitare di leggere recensioni fondate su questo parere. Ma non lo è questa. Perché, anche grazie alla sua concisione – dura soltanto trentaquattro minuti - “Heaven” non sbaglia un colpo, oltre a rappresentare, fosse anche solo per la voce di Katie Monks, un’interessante variante di un filone spesso piuttosto piatto.

12/10/2018

Tracklist

  1. I Feel Free
  2. Doom
  3. Believe
  4. Sober Motel
  5. Sorry Ur Mad
  6. Marijuana
  7. Pretty Cold
  8. Bad Biology
  9. Heaven


Dilly Dally sul web