Tutte le grandi saghe stilistiche sono costeggiate da personaggi che, pur avendo poco o nulla a che fare con la carovana di turno, per mere contingenze storico-geografiche si ritrovano scaraventati dentro di peso. Il punk, con la sua connaturata capacità di rappresentare tutto e il contrario di tutto, è stato forse la calamita più magnetica verso questo tipo di equivoci: il fatto che figure come Paul Weller, Elvis Costello o Joe Jackson vi siano state inizialmente accostate ne è la prova tangibile.
Icona del movimento suo malgrado grazie a classici proto-77 come "Roadrunner" e "Pablo Picasso", il bostoniano Jonathan Richman è in realtà un saltimbanco sorridente e tutt'altro che nichilista, impareggiabile narratore di bozzetti satirici con il suo tocco deliziosamente jewish. Maglietta a righe perenne, pose bambinesche, nostalgie anni 50, ma anche una consumata abilità nello sfornare canzoncine irresistibili e una vorace curiosità verso le musiche di tutto il mondo hanno fatto di lui uno dei loser più adorabili e adorati. Contro ogni pronostico, un soggetto così eccentrico ha avuto non solo un'enorme influenza (chiedere alle marmaglie indie, twee-pop, lo-fi e compagnia, tutte debitrici di quell'approccio indolente e pre-slacker), ma anche una carriera che prosegue ininterrotta da ormai oltre quarant'anni.
Prodotto con la moglie Nicole Montalbano e l'ex-Talking Heads Jerry Harrison (già insieme a Richman nei seminali Modern Lovers), "SA" arriva a due anni da "Ishkode! Ishkode!", ma è in tutto e per tutto un album fuori dal tempo: sfido chiunque, pescando una canzone a caso dalla scaletta, a indovinare l'epoca in cui è stata incisa. Il monosillabo del titolo fa riferimento a "the root note in Indian ragas that Ramakrishna, the much beloved mystic, told his spiritual students to search for underneath all things of this world": ed è proprio l'India (magari più quella a bassa fedeltà del discepolo Calvin Johnson che il paradiso lisergico dei Sixties) il faro musicale e spirituale per tutto il lavoro, laddove l'album precedente omaggiava a suo modo i canti dei nativi americani.
Con un tono tra lo sgangherato e lo spettrale, che ricorda a tratti l'album a quattro mani fra Daniel Johnston e Jad Fair, si susseguono stramberie tardo-hippie alla Incredible String Band/Pearls Before Swine ("The Fading Of An Old World"), aliti di harmonium Ivor Cutler-iani ("O Mind! Let Us Go Home"), flashback acidi tra Skip Spence e Julian Cope ("A Penchant For The Stagnant"), ma anche gagliarde puntate bossa ("¡Alegre Soy!", cristallina dichiarazione d'intenti) e numeri gypsy-folk in stile Beirut ("Yes, Take Me Home"). Apre e chiude il vaporoso mantra della title track, mentre a metà percorso si spanciano gli otto minuti all'incenso di "Oh Mind! Just Dance" che sarebbero piaciuti all'Allen Ginsberg musicista.
Talentaccio melodico pari alla sua inscalfibile faccia da schiaffi, a 67 anni Jonathan Richman continua a tirare dritto per la sua strada, incurante di qualsiasi moda o giudizio: anche solo per questo, è davvero impossibile non continuare a volergli bene.
29/10/2018