"Non mi piace definirmi un'artista, non mi piace definirmi una cantante o persino una musicista": è questa la provocazione da cui partire per definire la californiana Kadhja Bonet, cantante, multistrumentista, e a quanto pare istigatrice nata, viste le parole usate per descriversi. Certo, questo suo esordio suona molto come un omaggio alle fascinazioni neo-soul della migliore Erykah Badu. Ma non solo.
"Childqueen" è un album irto di bassi funky che scivolano alla stregua di un Thundercat “qualunque”, ipnosi r’n’b, magnetici vocalizzi ("Delphine") e una narrazione che poggia supina su quello che potremmo definire come un inguaribile ottimismo, la necessità di ritrovarsi ad ogni mattino spinti magari da una marcetta e da un invitante coro di sirene ("Procession"). La Bonet esplora se stessa e la musica soul, talvolta avvolgendosi in un climax di archi e bassi in festa che anestetizza i pensieri cattivi ("Joy").
E’ puro soul bucolico, come non lo si ascoltava dai tempi della dimenticata Georgia Anne Muldrow, un’altra inseguitrice di strade parallele, suggestioni corali, e incastri folcloristici. La faccenda diventa ancora più interessante dinanzi a canzoni come "Wings", brano introdotto da violini, a cui segue un passo black morbidissimo sorretto melodicamente da un refrain alla Minnie Riperton. L’inchino ai bei tempi della Motown e della Stax, dei teneri abbracci al tramonto, prosegue inoltre in "Mother Bay", prima che la conclusiva "Second Wind" accarezzi l’ascoltatore con delicati svolazzi psych-soul di grande resa.
Niente male per una “principiante”.
11/09/2018