Arrivati a un certo punto, oltre che obiettivi, bisogna essere del tutto onesti: l’ulteriore riedizione di “The Blue Notebooks”, al netto dei suoi contenuti, è un progetto furbo e inconsistente da parte del marchio Deutsche Grammophon, volto ad approfittare di una provvisoria ricorrenza (nemmeno a cifra tonda) per alimentare ulteriormente un mercato da poco rinvivito grazie alla generazione modern classical, della quale Max Richter rimane forse il vero capofila.
Una prime reissue su cd e Lp era già stata licenziata dalla prestigiosa major tedesca in prossimità della “rivelazione” della sua personale lettura vivaldiana, dunque a poco più di un decennio dalla stampa originale con l’etichetta 130701 (facente capo a FatCat). Nel 2016 “The Blue Notebooks” veniva poi raccolto insieme agli altri album degli esordi nella quadrupla “Retrospective”.
L’edizione del quindicennale divisa in due parti per separare i bonus dall’album vero e proprio, appare come la definitiva rivendicazione rispetto agli scarsi riscontri di pubblico ottenuti in prima battuta dal compositore, oggi tra i più richiesti in vari ambiti artistici e specialmente per il cinema e la televisione.
Non ci sono dubbi sul fatto che il disco in questione, rielaborando l’insegnamento post-minimalista glassiano, abbia finito con l’imporre una sorta di standard negli sviluppi stilistici del neoclassicismo a venire, offrendo prima di tanti altri certi spunti di interazione fra strumenti acustici, elettronica ed estratti narrativi – qui recitati dalla star britannica Tilda Swinton. La semplicità e l’enfasi melodica delle sue orchestrazioni vogliono essere, allora come oggi, una quieta opposizione ideologica alla spirale di violenze generata dalla guerra e a tutte le esecrabili azioni umane perpetrate ai danni dei più deboli nella vita quotidiana.
Tra il “santo patrono del dubbio” Franz Kafka, autore dei quaderni che danno il titolo all’opera, e la poesia “Terra inafferrata” del polacco Czesław Miłosz, i passi letterari scelti da Richter sono stralci di un animo instabile nel corso naturale della sua esistenza, sofferte introspezioni sull’età infantile e sul tempo che passa, luci e ombre di un denso paesaggio interiore.
Ogni uomo porta in se stesso una camera. È un fatto di cui il nostro stesso udito ci dà conferma. Quando si cammina in fretta e si tende l’orecchio, specie di notte, quando intorno a noi tutto è silenzio, si ode, ad esempio, il tentennio di uno specchio a muro non fissato bene.
(Franz Kafka, Primo quaderno in ottavo)
Ma tutto questo, se possibile, trovava già la sua sintesi più pregnante e commossa nel classico annunciato “On The Nature Of Daylight”: il crescendo della sua armonia cristallina gli è valso l’inclusione in due produzioni come “Shutter Island” e “Arrival”, rispettivamente accostato al rhythm'n'blues “This Bitter Earth”, scritto da Clyde Otis e reso celebre dalla voce di Dinah Washington, e in una versione orchestrale che ha reso indimenticabile il finale del racconto fantascientifico portato sullo schermo da Denis Villeneuve.
Il problema della presente edizione, purtroppo, sta proprio nella sua ossessiva riproposizione in ogni variante (quattro in totale, compresa l’originale), così da disperderne man mano l’innegabile potere evocativo. A ciò si aggiungono due remix elettronici piuttosto arditi e inconcludenti per mano della rampante Jlin e di Konx-Om-Pax (lo scozzese Tom Scholefield), volti a dimostrare la duttilità di un’estetica equilibrata e cristallina come quella di Richter; ma i brevi bozzetti per pianoforte come “A Catalogue Of Afternoons” e la nuova versione di “Vladimir’s Blues” non fanno che sottolineare ulteriormente l’enorme debito nei confronti di Glass, caratteristica che ancora oggi non può elevare “The Blue Notebooks” verso lo status di pietra miliare cui ambisce.
Entro un piano editoriale che già punta in larga misura sui nuovi lavori commissionati a Richter, questa “15 Years Edition” è la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso di un settore discografico in piena crisi: un’aggiunta tutt’altro che essenziale al catalogo della Deutsche Grammophon, che sembra quasi aver perso di vista la sua mission storica in favore di autori tanto più amati dal pubblico generalista quanto invisi ai melomani di lunga data, “traditi” dallo stesso marchio che, almeno fino alle soglie del terzo millennio, ancora rappresentava un’istituzione con pochi eguali nel panorama della musica classica.
24/05/2018
Cd 1
Cd 2