L'immaginario fantascientifico di serie B (o inferiore) ha sempre fatto leva sull'idea che gli alieni siano creature dalle fattezze mostruose, custodi di una conoscenza superiore alla nostra e tendenzialmente ostili, pronti a invadere il nostro pianeta e soggiogarlo; un'ipotesi, a ben vedere, che rispecchia alla perfezione il modus operandi della nostra specie, mossa lungo tutta la storia da logiche espansive senza scrupolo alcuno.
La letteratura e il cinema di serie A, d'altro canto, hanno favorito meccanismi narrativi più problematici, partendo dal presupposto che una civiltà extraterrestre potrebbe avventurarsi da altre galassie con gli stessi timori e le stesse limitazioni comunicative che ci contraddistinguono.
L'ultimo film di Denis Villeneuve, "Arrival", e la relativa colonna sonora affidata a Jóhann Jóhannsson muovono da una visione quasi primitivista, dove i visitor interstellari non sono agenti diretti bensì messaggeri di un codice verbale da interpretare con la massima urgenza. Lo score musicale rispecchia con grande sensibilità lo sguardo meravigliato e insieme inquieto di chi si confronta per la prima volta con queste creature e con il loro linguaggio - in forma scritta, incisioni circolari simili a quelle riscontrate su alcune nostre rocce preistoriche - uno scrigno semantico in grado di cambiare persino la percezione temporale degli umani.
Dopo la recente collaborazione con Tim Hecker per le tessiture corali di "Love Streams", Jóhannsson si avvale dell'illustre Theatre Of Voices diretto da Paul Hillier, per il quale compone una partitura di matrice minimalista, cristallina nella sua essenzialità: il canto sillabico delle voci ripete cellule pre-significanti secondo l'insegnamento della sciamana Meredith Monk, incastonate l'un l'altra nelle rispettive sincopi; tracce misteriose che caratterizzano i temi principali della soundtrack, la cui tavolozza spazia tipicamente tra le pennellate larghe dell'orchestra d'archi, nembi di ottoni in elevazione e perturbazioni sotterranee - ascrivibili alla dark-ambient siderale dell'ultimo Lustmord - realizzate tramite loop di note basse al pianoforte.
Un costante senso di attesa pervade la gran parte delle sequenze, una tensione che mai si risolve e risulta accentuata dalle nette percussioni in legno, ulteriore rimando al confronto con una cultura dall'espressività primordiale.
Nel reprise finale del tema "Heptapod B" abbiamo una prima, ariosa concessione al sentimento, come un enigma finalmente dischiuso che si rivela salvifico. Ma l'epilogo vero e proprio della pellicola è corredato da un featuring di prima categoria: rilasciato come singolo e come bonus track per l'edizione in doppio Lp, "On The Nature Of Daylight" (secondo brano di "The Blue Notebooks") è una piccola gemma dal repertorio di Max Richter; scritta in origine per quintetto e qui riarrangiata per un'intera orchestra d'archi, è ciò che si potrebbe definire la perfetta esemplificazione dello stile passionale e melanconico portato avanti negli ultimi anni dalla generazione modern classical.
Jóhannsson torna qui a conciliare gli elementi acustici con una processazione elettronica poco invasiva, rimettendo al centro la peculiarità del suo stile dopo il poema sinfonico "Orphée" - una sorta di sigillo sul contratto con la major Deutsche Grammophon, che di gran lena si prodiga per mantenere il proprio catalogo al passo coi tempi. Il giovane compositore islandese, come altri arruolati in questi anni, più che una scommessa è un cavallo già vincente col quale l'etichetta tedesca non si appresta a correre alcun rischio, in ogni senso possibile.
01/12/2016