Rimando sempre a momenti e contesti migliori una riflessione approfondita sul curioso rapporto tra i compositori di modern classical e le major discografiche custodi della tradizione musicale secolare. Questione niente affatto scontata, anche dopo casi significativi come la firma di Ólafur Arnalds con Mercury, quella di Lubomyr Melnyk con Sony, infine di Max Richter - e ora anche Jóhann Jóhannsson - con Deutsche Grammophon.
Da una parte abbiamo una schiera di autori talentuosi che ambiscono al riconoscimento (o a posteriori ne approfittano) presso la platea "ufficiale" e globale della musica classica; dall'altro etichette storiche che non soltanto hanno l'occasione di risollevare i dati di vendita, ma anche di svecchiare cataloghi che non risultano altrettanto appetibili a un pubblico tutto nuovo e con un gusto, di fatto, ben diverso rispetto al passato.
Uno scambio e un equilibrio di forze che sembra accontentare tutti, ma che a ben vedere cela alcuni aspetti tutt'altro che scontati: volendo estremizzare, si direbbe che la consacrazione dei giovani compositori per mezzo dei "big" discografici finisca per qualificarli come nuovi manieristi, almeno quel tanto che basta per far sì che le etichette sentano l'esigenza di accaparrarsi il loro lavoro senza compromettere la propria reputazione; l'avallo del classicismo, dunque, diventa un modo per distinguere quelli che si dimostrano più propensi a rimanere tra i ranghi del classicismo dal caos abnorme (e assai meno redditizio) delle avanguardie.
Un discorso, questo, che non mira a protrarre una sterile polemica tra fazioni - conservatori vs. innovatori - bensì a sottolineare quale sia l'attuale punto d'arrivo del percorso artistico di Jóhannsson. Facendosi onorevolmente strada con gli esordi pubblicati da Touch e 4AD, l'autore islandese ha finito per concentrare le varie colonne sonore (genere d'elezione che lo ha reso noto) sulla propria label NTOV, dedita unicamente a edizioni in vinile della sua opera; a più riprese ha così affermato una sensibilità che non poteva non conquistare il grande pubblico, oltre che diverse nomination tra Oscar, Golden Globe e Bafta.
L'uscita del nuovo "Orphée", assieme all'annuncio del contratto esclusivo con il colosso tedesco, vuole chiaramente segnare un landmark nella sua carriera e nell'affermazione come compositore a tutto tondo, da libro di storia della musica contemporanea. Ciò avviene, significativamente, con un'opera che è la più cristallina esemplificazione dello stile neoclassico islandese (e dunque non soltanto "suo"), con formazioni diverse in ogni brano ma quasi sempre incentrate sulle tipiche ondate diafane di strumenti ad arco.
Il mito di Orfeo, preso nella totalità delle sue interpretazioni nei secoli ("da Ovidio a Cocteau"), è trattato liberamente da Jóhannsson come metafora della creazione artistica stessa: scelta non casuale per una raccolta di brani che sembra voler offrire un campionario di variazioni sulle sonorità dominanti della sua produzione, sebbene ciò non facesse forse parte delle intenzioni originarie.
I temi musicali si inseguono e si richiamano in un avvicendarsi di brevi momenti che sembrano voler condensare un'immagine nel minor numero possibile di tratteggi - non è forse questo, il minimalismo? - occupando lo spazio di pochi minuti per cambiare subito prospettiva, ma senza disorientanti sbalzi di tonalità.
Un senso di transitorietà, quando non di evidente incompiutezza, che vede passare in secondo piano anche l'attenzione da sempre rivolta al dialogo tra strumenti acustici e manipolazioni elettroniche: a eccezione di fugaci passaggi in alcuni tra i migliori episodi ("By The Roes, And By The Hinds Of The Field"), le più sensibili intrusioni da parte della modernità sono dei segnali radio che trasmettono sequenze di numeri in varie lingue ("A Song For Europa", "A Deal With Chaos", "The Radiant City").
Nel mezzo delle orchestrazioni da sogno, che paiono spesso le dirette discendenti delle Amiina, il compositore fa da guida sugli stessi accordi di pianoforte, col tocco mite e risonante di Arnalds, e all'organo tracciando linee continue alla maniera austera di Arvo Pärt ("The Burning Mountain"), ispirazione confermata dalla sublime chiusa polifonica con i Theatre Of Voices di Paul Hillier, interpreti di punta del maestro estone.
Pur nella loro evanescenza, i singoli elementi dell'opera riescono alfine a evitare l'anonimato, caratterizzandosi non per le loro differenze ma proprio nella fragile continuità che le accomuna: ogni tassello va ad alimentare l'ideale ricreazione di atmosfere cullanti simili allo "Sleep" di Richter, uscito un anno prima su DG, ma conservando tutta l'eleganza e la qualità cinematica che denotano Jóhannsson come poeta autonomo nel panorama della nuova generazione. Per quanto manieristica (e di qui, forse, meno coraggiosa) la sua espressione ha il potere - come un lieve incantesimo - di avvincere i sensi e ammorbidire ogni osservazione critica, per quanto lecita. Benvenuto tra i classici, Jóhann.
24/09/2016