Spain

Mandala Brush

2018 (Glitterhouse)
psychedelic slowcore, americana

Ok, errore mio. Sarà una band omonima. La copertina tardo-hippie alla Holy Modal Rounders, i titoli intrisi di incensi new age, i teaser con frammenti di sghembi raga gitani: non vedo cosa possano avere a che fare questi parafernalia freakkettoni con la schiva eleganza degli Spain. Aspetta, ecco che entra la voce: è la sua, non si discute. Ma anche la musica è sua, ora che mi ci sono sintonizzato bene. Messaggio ricevuto: non me la caverò con un paio di ascolti, questo disco necessita attenzione.
Cosa gli sarà preso, a Josh Haden? Di spiritualità nella sua musica ce n'è sempre stata a vagonate, ma qui parliamo piuttosto di misticismo. Che strano oggetto è questo "Mandala Brush", disco fantasma passato sotto traccia anche tra gli aficionados, infiorettato di parentesi quadre e strani caratteri orientali per scoraggiarne il download prematuro? E' un album degli Spain, ecco tutto, basta solo farci caso. Sì, perché se questo colpo di fulmine per un free-folk indianeggiante ad alto tasso psichedelico può sembrare uno scherzo stilistico, il tocco nell'ammaestrarlo si inserisce nella delicatezza agrodolce a cui l'autore ci ha abituato da vent'anni. Inoltre, a fianco di questi frattali speziati troviamo brani perfettamente afferenti all'Haden-pensiero, senza che tra gli uni e gli altri si crei alcun attrito.
La chiave di volta è la vibrante tematica religiosa che aggrega l'intero lavoro, che permette di giustapporre una visione in trance con un'invocazione accorata nello stesso, ipnotico flusso musicale. Poco conta a quale divinità ci si rivolga, sembra suggerire il cantante, l'importante è trovare conforto dalla propria sofferenza.

Un buon sunto di questi intenti è l'iniziale "Maya In The Summer", non a caso selezionata come singolo: la matrice iberica è trasparente, a sorprendere è semmai l’insolita tensione nello sviluppo e l'uso sguaiato della voce, tra Tim Buckley e Pall Jenkins, approdando a un finale dagli accenti morriconiani. Evidentemente a Haden non basta più mormorare i propri tormenti, adesso sente il bisogno di salmodiarli urlando, ma sempre affidandosi alle solite partiture narcolettiche.
Da qui in avanti le due anime convivono con educazione, dandosi di volta in volta il cambio: troveremo quindi "Sugarkane", ossuta come un lamento di Jason Molina, sorpassata da "Rooster Cogburn" che potrebbe essere un inedito di Fred Neil, a sua volta seguita dal rotondo country-soul-gospel di "You Bring Me Up", disarcionato dai fumi etnicheggianti di "Tangerine", degna di un Bruce Palmer accompagnato dai Charalambides.
La porzione centrale si stabilizza su vibrazioni più asciutte, tra il mantice mitteleuropeo di "Holly" (con un tocco di Matt Elliott), la tromba notturna di "Folkstone, Kent" e una gemma di paesaggismo orizzontale come "Laurel, Clementine", hadeniana al 100%. Ma è proprio quando abbiamo ormai abbassato la guardia che arriva a rapirci l'ineffabile "God Is Love", viaggio astrale un po' Third Ear Band un po' Popol Vuh, sequestrandoci per quasi un quarto d'ora con il suo liquido intreccio di cornamusa, flauto, violino e canto carnatico.
La solennità messicana di "The Coming Of The Lord" è un risveglio nel segno di un più familiare minimalismo cristiano, prima della definitiva ascesi Spirit-uale di "Amorphous", da cui si atterra inevitabilmente cambiati.

Spesso accusato di essere troppo uguale a se stesso, con questo affascinante lavoro il caro Josh si è preso una rivincita che, forse, lo ha anche aiutato a fare i conti con i propri demoni più reconditi.

06/10/2018

Tracklist

  1. Maya In The Summer
  2. Sugarkane
  3. Rooster Cogburn
  4. You Bring Me Up
  5. Tangerine
  6. Holly
  7. Folkestone, Kent
  8. Laurel, Clementine
  9. God Is Love
  10. The Coming Of The Lord
  11. Anamorphous

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