Nuovo acquisto della Saddle Creek, Ada Lea (vero nome Alexandra Levy) è una cantautrice canadese pronta a riscrivere in parte le regole del folk-rock, abbattendo quei confini di stile e di linguaggio spesso appannaggio dei profeti del moderno lo-fi.
In sole dieci canzoni l’autrice in “What We Say In Private” condensa Beatles, Peter Gabriel, Breeders, Karen Dalton, PJ Harvey, Wilco e David Bowie, senza lasciar traccia della loro influenza, grazie a una nonchalance creativa, frutto di una personalità audace e sicura. Una gradevole teatralità pop-rock (“Mercury”) e una turbolenza emotiva in bilico tra disagio e angoscia (“Easy”) sono il leit-motiv di un disco ambizioso e compatto, dove caos diventa sinonimo di libertà.
A volte, il pensiero va ai Big Thief, con i quali Ada Lea condivide un approccio ritmico che mette insieme alt-rock, progressive e jazz (“Wild Heart”), accennando a più riprese uno stimolante surrealismo (Ada è anche una pittrice e una visual artist). Nulla è come sembra, nel mondo intimo e privato di Ada Lea: i colori abbaglianti dei synth che tinteggiano lo splendido dark elettronico di “For Real Now (Not Pretend)” nascondono insidie ed emozioni la cui fragilità è simile alla loro forza. Ed è travolgente e inusuale il crescendo slow-core vs psych-rock di “What Makes Me Sad”, un brano dalla sensualità ambigua e sotterranea che sembra uscire da un disco di Connan Mockasin o David Bowie.
E’ un album che tiene fede al suo titolo, “What We Say In Private”: Ada Lea utilizza frame familiari per poi violarne i segreti. Accade ad esempio in “The Dancer”, inaugurata da note introspettive che accennano un prevedibile folk-pop, e poi sfibrata del residuo romanticismo con una forza poetica e descrittiva alla Kate Bush, evolvendosi verso una dinamicità armonica e strumentale inaspettata.
Va preso dunque atto che abbiamo di fronte un’artista abile nel trasformare la routine in qualcosa di speciale, come accade nel singolo “The Party”: un resoconto apparentemente ordinario di un giorno d’evasione, che diventa oggetto di una riflessione più ampia (si ascolti il brulicare di rumori e l’avvizzire degli accordi sul finale).
Accade lo stesso nel fragile dialogo a più voci con tanto di uccellini e rumori di strada adagiati su pochi accordi di chitarra acustica di “Just One, Please”, o nell’ancor più intima e confidenziale “Yanking The Pearls Off Around My Neck...”, che non solo rimarca il talento di Ada Lea come autrice (avrebbe potuto incidere un album folk-blues per voce e chitarra e staremmo qui lo stesso a tesserne le lodi) ma anche come interprete. E’ infatti sorprendente la gamma di toni e sfumature che l’artista dispensa nelle dieci tracce di “What We Say In Private”, tra sospiri e toni acuti che si avvicendano senza soluzioni di continuità. Non a caso, ho finora tralasciato “180 Days”: una nervosa e scheletrica rock-ballad che Ada Lea sottolinea con una molteplicità di stati d’animo, che coniugano il romanticismo alla forza selvaggia dei sentimenti, bruciando e ustionando come, e più, del ghiaccio.
Passione ed eccessi sono il nutrimento di un album che esprime una vitalità artistica che va al di là di parole e musica, in un esordio folgorante e maturo.
(02/08/2019)