Il silenzio è un tuffo in se stessi, non per solipsismo ma per ricongiungersi invece con una parte di universalità. Il silenzio evoca una sosta sul mondo, una tregua nell’esistenza per sentirsi di nuovo pienamente vivi
(D. Le Breton, "Sovranità del silenzio")
C’è qualcosa nella vita di
Roberto Galati che lo rende più simile a una leggenda che a un semplice musicista con uno stile di vita singolare. Musicista senz’altro, ma anche viaggiatore estremo, fotografo e attento conoscitore delle zone più recondite e dimenticate del pianeta, dall’Afghanistan al Kashmir, dalla Groenlandia al Pakistan. La sua serie di viaggi in totale solitudine (tutti descritti nel suo interessantissimo
blog) lasciano spesso senza fiato il lettore, a volte incredulo per quanto estreme e invidiabili siano queste esperienze vissute ai limiti.
Quindi un artista globale, capace di avvicinarsi da vicino sia a se stesso nella vera solitudine di paesaggi naturali senza alcuna antropizzazione, sia capace di confrontarsi con culture di popoli che il
mainstream molto spesso ci descrive come ostili. Lui alieno in un mondo altro, dove il vero alieno forse è proprio la diffidenza del mondo occidentale. Ad ogni viaggio corrisponde una colonna sonora e stavolta è l’Asia con le imponenti catene montuose di Afghanistan e Tagikistan a fare da ispirazione al nuovo “Fragility”. E’ proprio la fragilità il sentimento che può nascere dalla visione di una natura tanto imponente e selvaggia, da un silenzio e una solitudine tanto pervasivi da essere totalmente avulsi anche dalle più anomale esperienze possibili all'interno della nostra società.
La musica di Galati si fa più massiccia e imponente, come se la natura imponesse questa magniloquenza (la monolitica “Irshad Uween”), con durata esorbitante (la monumentale “Sarhad-e Broghil” di 27 minuti). Sette brani che vanno contemplati, come fossimo dinanzi a uno spettacolo che ci sovrasta; gli elementi post-rock che avevano fatto la differenza nell'ultimo Lp “Silence (As A Din)” del 2018 tendono a scomparire per una solennità costruita su tastiere e chitarre (“Sakar Sar” con chitarre quasi psichedeliche o i synth inquietanti di “Koe Mandaras”). Se il viaggio sia reale, fatto di terra e chilometri, o sia invece solo dentro se stessi, andrebbe chiesto a Galati.
Ma l'impressione è che in questo viaggio ci si possa entrare, come nei dodici minuti finali di “Noshaq”, che dopo un inizio da orridi abissi transilvani,
à-la “Nosferatu” dei
Popol Vuh, si placa come per raccogliersi in quello che è il vero obiettivo del viaggio, la riscoperta di noi stessi nel silenzio.
06/09/2019