E’ una storia che si ripete: un gruppo che si dissolve avendo esautorato il potenziale creativo, un leader pronto a calarsi in un ruolo sofferto e intimista, affidandosi a un canovaccio stilistico familiare, mettendo insieme una serie di canzoni che “forse” difficilmente lasceranno il segno; lasciandosi infine apprezzare più per il coraggioso rifiuto di un successo carpito con furbi riferimenti nostalgici alla defunta band.
E’ sempre questo il cliché degli esordi di un famoso "ex" o esiste qualche piacevole eccezione?
Hayden Thorpe sembra essere in possesso di una consapevolezza profonda delle ragioni che hanno portato i Wild Beasts sull’orlo della mediocrità. “Diviner” è l’album che la band avrebbe potuto realizzare se avesse avuto lo stesso coraggio dei Talk Talk di “Spirit Of Eden”, dei Japan di “Tin Drum” o di Kate Bush quando sfidò la Emi incidendo “Hounds Of Love”.
Forse era chiedere troppo ai compagni di ventura dover rinunciare alle geometrie funky-pop o all’energia vibrante delle chitarre, abbracciando in converso il fascino malinconico di synth e tastiere e concedendo spazio a una fragilità emotiva che all’interno di una band rischiava di diventare devastante.
Thorpe accetta dunque senza indugi di immergersi in una sequenza di canzoni dai forti connotati terapeutici: lasciarsi alle spalle il passato è per il musicista una necessità, una sfida a quell’ego smisurato che era diventato un fardello insopportabile. Non si pensi che l’ex-Wild Beasts non sia più capace di estrarre dal suo cappello magico una potenziale hit: si prenda ad esempio il ritmo incalzante ma asciutto di “Human Knot” o l’eccellente progressione di accordi di “Impossible Object”.
Quel che è evidente in “Diviner” è la volontà di toccare ambiti emotivi più intensi e duraturi, alla Blue Nile per intenderci (“In My Name”), rinunciando perfino al ruolo primario della voce (“Spherical Time”). E chissà se dietro “Anywhen” non si nasconda un implicito omaggio alla figura artistica di Thomas Feiner.
Non è poi del tutto vero che “Diviner” segni una rinuncia netta al passato, tant’è che al tavolo di produzione Hayden Thorpe ha chiamato quel Leo Abrahams che aveva già marchiato a fuoco l’album dei Wild Beasts “Present Tense”.
Le dieci tracce in fondo non sono prive della sensuale carnalità e delle gotiche dissonanze che caratterizzavano le vecchie gesta, solo che qui tutto è più sofisticato, spirituale, noir. Le affascinanti gradazioni emotive di album come “Smother” sono infatti rintracciabili nella leggerezza funky-pop alla Japan di “Straight Lines”, o nel ciclico beat pianistico della splendida “Love Crimes”: un mix di erotismo e innocenza che Thorpe è riuscito ora a elevare a uno stato artistico ancora più nobile e suggestivo.
15/07/2019