Sono trascorsi più di quarant’anni dall’amplesso tra calcolatore e compositore nel campo dell’elettronica sperimentale, vedi ad esempio Laurie Spiegel e il suo computer in grado di riprodurre melodie attraverso apparecchiature di sintesi analogica con il sistema ibrido GROOVE - Generating Realtime Operations On Voltage-controlled Equipment - sviluppato all’epoca da Max Matthews e F.R. Moore nei mitici laboratori Bell. Un’epopea fondamentale per lo sviluppo di determinati processi, i quali oggi addirittura puntano alla fusione definitiva tra creatività umana e programmazione.
L’americana Holly Herndon ha dato prova della propria inclinazione nel formulare suoni sintetici sfruttando in maniera alternativa il proprio laptop come parte attivissima del processo creativo, sia in “Movement” che nel più frastagliato e disumanizzato “Platform”. Album che l’hanno spinta ad andare oltre, chiudendo con “PROTO” un percorso intrapreso con professionalità e ispirazione. Stavolta, però, la manipolatrice americana ha pensato in grande, coinvolgendo niente di meno che un’intelligenza artificiale, chiamata “Spawn” (trad. “Prole”), con l’obiettivo di rielaborare le voci presenti in una formula tutt’altro che prevedibile, dando ampio spazio alla macchina in quanto parte attiva, integrante e generatrice.
Dunque, siamo al cospetto di un vero e proprio duo, per metà umano e per l'altra metà robot, con l’aggiunta dei vari ospiti di turno: Jenna Sutela, Jlin, Lily Anna Haynes e Martine Syms, chiamati in causa per aiutarla a rendere la tecnologia meno “disumanizzante”, come dichiarato da lei stessa nel lancio del disco. Un album estremamente complesso in fase di stesura, con una missione finale elettrizzante, parimenti ricco di umanità e passaggi che quasi inducono a una sorta di “Spirit Of Peace” dei Popol Vuh (!) elaborato in chiave cibernetica.
E’ infatti una coralità epica a fungere da collante tra le partiture generate da Spawn e la Herndon, a partire dal monito di “Birth”, proseguendo con la sezione ritmica deframmentata e da contraltare al canto celeste di “Alienation”, fino alla sontuosa “Eternal”, con le voci decomposte e rianimate a seconda della pulsazione.
Meno fruibile risulta la struttura di “Crawler”, tra sample di uccelli, cascate d'acqua e soluzioni in Hd alla Visible Cloaks. Ancora più inafferrabile appare poi il passo distorto, per intenderci in scia Tyondai Braxton, di “Godmother”, con la presenza quasi impercettibile di Jlin.
Più pacchiana e a suo modo distesa, “Extreme Love” - con il supporto di Lily Anna Hayes e Jenna Sutela ai cori, in seguito stravolti dal buon “Spawn” - espone discorsi futuristici e decostruzioni al laptop, mentre “Frontier” richiama incredibilmente il sopracitato album dei Popol Vuh (!), quasi a voler riscrivere un tribalismo spirituale attraverso il verbo di un nuovo vangelo rigorosamente computerizzato. E’ il cuore caldo di un’opera totalizzante, a precedere “Fear, Uncertainty, Doubt” e il suo affresco desolante, nel segno di una decadenza insolita per le tipiche “movenze” generate dalla fantasia della Herndon.
La rielaborazione di Spawn riemerge nel coro filtrato de “Evening Shades (Live Training)”, ribadendo appieno le intenzioni della vigilia espresse dalla compositrice statunitense: “Noi siamo in contrasto con questa. Non vogliamo scappare, ma correre verso di essa alle nostre condizioni. Decidere di lavorare con un ensemble formato da esseri umani è parte del nostro protocollo. Non voglio vivere in un mondo dove gli umani vengono automatizzati da dietro le quinte. Voglio un’intelligenza artificiale che venga cresciuta per apprezzare e interagire con quella bellezza”.
Ebbene, al netto di qualche mo(vi)mento appunto macchinoso, il protocollo paventato dall’americana ha senz’altro ottenuto il suo scopo, definendo al meglio un’interazione possibile, il tutto sperando che in futuro non si presentino le medesime incomprensioni tra il comandante Bowman e il riottoso HAL 9000.
18/10/2019