Stay warm inside the ripple
Of the Panasonic hum
It grinds
And it roars
Headed somewhere better
Ci voleva una pandemia per riportare i Mountain Goats alle origini. Ci voleva il confinamento di una quarantena per far ritrovare a John Darnielle lo spirito della bassa fedeltà. Come cantava una volta (titolo del brano, guarda caso, “The Plague”), la peste ci coglie sempre impreparati: “And all our great schemes and plans/ Will slip like fishes from our hands”. I giorni del Covid-19 hanno colto Darnielle nel bel mezzo della registrazione di un nuovo disco insieme al resto del gruppo. Aveva portato con sé un libro: “Cronaca degli ultimi pagani”, dello storico francese Pierre Chuvin. Le sessioni si sono interrotte, ma le ombre degli adoratori di Cibele lo hanno accompagnato fino al ritorno a casa.
Lì, un’idea irresistibile si è fatta strada: riprendere in mano il vecchio registratore a cassette, il leggendario Panasonic RX-FT500, il compagno fidato di mille avventure in lo-fi, che giaceva nell’angolo di uno scaffale tra i cimeli di un’altra vita. C’era solo un problema da risolvere: quel rumore di fondo che, dopo anni di onorato servizio, lo aveva reso ormai praticamente inservibile. A volte, però, la storia dell’uovo di Colombo funziona davvero. In questo caso, bastava mettere il boombox in verticale, come una sorta di monolite mangianastri, per farlo tornare ai fasti di un tempo. E così, le bobine hanno ricominciato a girare.
Annullare un tour per emergenza sanitaria significa lasciare parecchia gente senza stipendio. “Il boombox e io sapevamo che dovevamo fare qualcosa”, racconta Darnielle. Dieci canzoni in dieci giorni, scritte con la stessa tecnica dei vecchi tempi: “Leggere fino a quando qualcosa ti colpisce; suonare la chitarra improvvisando fino a quando trovi un motivo che ti piace; scrivere il testo, mettere insieme la canzone, registrarla subito”. Una cassetta per permettere al team Mountain Goats di andare avanti.
È nato così “Songs For Pierre Chuvin”, l’album del ritorno di Darnielle all’estetica del boombox. Il vibrare metallico della chitarra, l’accento nasale della voce, il respiro del nastro in sottofondo… sembra impossibile che siano passati quasi vent’anni da “All Hail West Texas”. Mai come stavolta, ritrovarsi a casa suona tutt’altro che una frase fatta.
Basta il morso delle prime note di “Aulon Raid” e si è proiettati subito nel cuore dell’azione. Siamo in Asia Minore, al crepuscolo del paganesimo. I decreti teodosiani hanno disposto la soppressione dei vecchi luoghi di culto. Marcello, il vescovo di Apamea, guida i soldati imperiali ad abbattere il tempio di Aulone. Darnielle, ovviamente, si mette dalla parte dei perdenti, degli sconfitti, di quelli che lottano fino all’ultimo respiro anche quando sanno di trovarsi dal lato sbagliato della storia. La voce della resistenza pagana si leva come una sfida, mentre le frecce sibilano nell’aria: “Me and my crew/ We will deal with you/ We will deal with you/ Me and my pagan crew”. Marcello farà una brutta fine: gettato in mezzo alle fiamme, per l’esattezza. Un punto per i pagani.
Il ritmo della chitarra graffia, raschia, scortica: “Until Olympius Returns” è l’inno di battaglia dei reduci dell’assedio del Serapeo di Alessandria, il tempio di Serapide demolito per fare posto a un nuovo evo. Il numero uno dei pagani, Olimpio, si dà alla fuga, la resistenza passa alla clandestinità, tutti fingono di fare buon viso di fronte ai “new guys” con la croce al collo che adesso la fanno da padroni. Ma il loro unico sogno è quello di veder bruciare presto le colonne che vengono innalzate al posto di quelle antiche: “We will be right here/ On the day it finally burns/ Everybody hold a spot/ Until Olympius returns”.
Che Darnielle avesse un debole per il mondo antico non è certo una novità: è dagli anni Novanta che canta di eroi omerici, Baccanti ed eresiarchi gnostici… Ma “Songs For Pierre Chuvin” non è un album riservato (solo) ai maniaci dei libri di storia: basta avere assaggiato almeno una volta la polvere del fallimento per immedesimarsi nel glorioso senso di rivincita di “Last Gasp At Calama”; basta essersi sentiti almeno una volta schiacciati dal pensiero del domani per fremere alla minaccia incombente di “January 31, 438”. Tumultuose odi alla perseveranza dello spirito, che non fanno rimpiangere per nulla le pagine del passato.
Come da tradizione, l’unico diversivo al rigoroso formato voce/chitarra è la tastierina Casio di “The Wooded Hills Along The Black Sea”, con il suo beat tintinnante a scandire il distendersi nostalgico della melodia. I serpenti prendono possesso delle rovine di marmo, strisciando tra gli accordi incalzanti di “For The Snakes”, mentre il fraseggio luminoso di “Going To Lebanon 2” fa da sequel a un brano risalente nientemeno che all’album d’esordio dei Mountain Goats. Poi, quando i toni si placano, il sussurro di “Their Gods Do Not Have Surgeons” prende la forma di un’eterodossa preghiera dall’esilio: “Let your God rebuild this roof/ And restore the temple of Isis at Memphis”.
Se qualcuno avesse ancora dubbi, ci pensa l’epilogo soffuso di “Exegetic Chains” a declinare tutto al presente: le invocazioni delle ultime voci dell’era pagana si uniscono a quelle delle avanguardie dell’era del distanziamento sociale, e le loro parole sono le stesse di “This Year” - l’emblema dei Mountain Goats per eccellenza - quasi a voler chiudere il cerchio (o meglio, la catena esegetica): “Say your prayers to whomever/ You call out to in the night/ Keep the chains tight/ Make it through this year/ If it kills you outright”. Non siamo anche noi sul confine di un mondo sotto assedio? Arriveremo alla fine anche di quest’anno, parola di John Darnielle. Accompagnati nella nostra nuova solitudine dal caldo fruscio di un registratore a cassette: “Possa il rumore di quelle bobine condurci verso un futuro sicuro, dove ci ritroveremo ancora una volta insieme in una stanza a cantare canzoni su sacerdoti pagani e rifugi nascosti, e dove potremo rivederci l’un l’altro faccia a faccia”.
20/04/2020