Dottor Jekyll e Mister Hyde: due album sfornati a pochi mesi di distanza, due facce dei Mountain Goats che non potrebbero essere più diverse. Da una parte, l’intrepido ritorno alla bassa fedeltà di “Songs For Pierre Chuvin”. Dall’altra, la curatissima escursione tra folk, rock e jazz del nuovo “Getting Into Knives”. Una registrazione casalinga con il vecchio, immarcescibile boombox contro un lavoro rifinito nei leggendari studi di Sam Phillips a Memphis.
Memphis, appunto: ne è passato di tempo, da quando John Darnielle e soci hanno suonato per la prima volta da quelle parti. Allora a sentirli c’erano ben cinque persone… Più di vent’anni dopo, i Mountain Goats tornano nella culla del rock’n’roll passando dalla porta principale: per l’esattezza, dalla stessa sala di registrazione che ha tenuto a battesimo il capolavoro dei Cramps, “Songs The Lord Taught Us”. A marzo, prima dell’avvento dell’era del distanziamento sociale, le canzoni di “Getting Into Knives” hanno preso forma nel giro di una settimana, con l’apporto di un gruppo di turnisti locali e la produzione di Matt Ross-Spang.
Per respirare l’aria del Mississippi basta ascoltare i fiati carichi di soul di “Get Famous”, che spuntano sinuosi sulle dense pennellate dell’organo: una macchina del tempo che porta i Mountain Goats a incidere per la Stax in un universo parallelo. Con il suo sorriso più sarcastico, Darnielle mette alla berlina il miraggio della fama, ricollegandosi idealmente a quella galleria di personaggi perseguitati dalla maledizione del successo che ha raccontato negli anni (da Judy Garland a Amy Winehouse, passando per giocatori di baseball e idoli dark).
Ma “Getting Into Knives” non è semplicemente una cartolina dal Tennessee. Certo, c’è l’Hammond di Charles Hodges (storico collaboratore di Al Green) ad accompagnare la veemenza della batteria di “As Many Candles As Possible”. Ma il resto del disco si distende su tonalità molto più delicate: i contorni atmosferici di “Tidal Wave” si lasciano avvolgere dal sax di Matt Douglas, mentre il morbido svolgimento di “Bell Swamp Connection” va a sfociare in un monito (“Get out!”) che sembra già destinato a ritagliarsi un posto tra i classici del canzoniere darnielliano.
Al ritmo di uno skiffle scanzonato, “Corsican Mastiff Stride” apre l’album con il racconto di una fuga in compagnia di un fedele mastino còrso. Sono affollati di animali, i nuovi brani firmati da Darnielle: un pesce rosso insegna ad accettare il fardello della mortalità sulle note sognanti di “Pez Dorado”, i topi festeggiano nei cassonetti di un fast-food tra le chitarre Seventies di “Rat Queen”. E poi lupi (“Wolf Count”) e persino antichi idoli zoomorfi (“The Great Gold Sheep”).
Ma il cuore del disco ha più che altro a che vedere con i fantasmi del passato, con il modo di esorcizzarli o di scendere a patti con la loro presenza (che poi è uno dei leit-motiv di tutta la produzione dei Mountain Goats). L’episodio più emblematico, in questo senso, è “Picture Of My Dress”, ispirato a un tweet della poetessa Maggie Smith: la protagonista è una donna reduce dal divorzio che decide di attraversare l’America con il suo abito di nozze al seguito, per fotografarlo in ogni luogo che incontra (“Un po’ come in “Weekend con il morto”, solo che il morto è il matrimonio”). “I'm going to have to chase down the remnants/ Of something special that you stole from me”, canta Darnielle sui volteggi di una brezza folk profumata di Belle And Sebastian. Tra un’area di sosta sperduta nel nulla e la radio di un Burger King che passa gli Aerosmith, la strada è una promessa di libertà che spinge ad andare avanti finché c’è benzina nel serbatoio.
Le ombre di ieri si fanno più scure in “The Last Place I Saw You Alive”, mentre il pianoforte si intreccia al sax con l’eleganza fuori moda di qualche ballata di Randy Newman. I luoghi assumono un potere misterioso, quando si legano a un pezzo della nostra vita. E ancora di più quando a infestarli sono gli spettri di chi ci ha lasciato: “Then I pass the last place I saw you alive/ It’s changed since you were here, or else it hasn’t/ It was special, it was deadly/ It was ours and then it wasn’t”.
A volte, però, quando i tentativi di acquisire saggezza col tempo non portano da nessuna parte, non c’è niente di meglio di un’arma bianca per regolare i conti una volta per tutte con il passato… La title track, posta significativamente in chiusura del disco, gioca con le fantasie di vendetta che ci aiutano ad andare avanti (e che magari finiscono per trasformarci solo in innocui collezionisti di coltelli). Le percussioni scandiscono placidamente il passo, le corde della chitarra ricamano lungo i margini insieme all’organo. Ogni tanto basta lucidare le lame per sentirsi subito meglio. “It’s a gift to be simple, it’s a gift to be free/ I’m adjusting my focus, I’m getting into knives”.
05/12/2020