Cosa succede quando il suono antico del Mediterraneo incontra l’elettronica eterea del Mare del Nord? Quando il fiato melodico della tromba si snoda in un drumming percussivo e scivola via tra fraseggi obliqui? Lo scopriamo subito con i 6’30” iniziali di “Ghosts”, dalla quale siamo rapiti.
“In Origine: The Field Of Repentance” esplora quella terra di confine rada e rarefatta tra jazz ed elettronica senza compromessi e con trasporto. L’artwork della copertina ci pone di fronte a (o al posto di) una Pietà cieca fasciata nel latex, avvolta da quelle tenebre con cui si viene condotti oltre le colonne d’Ercole in un concept-album che dà forma sonora al tema dell’origine dell’uomo all’interno dell’universo. Si ascolta nel buio ma ad occhi aperti, traghettati dalla lucidità e dalla sapienza con cui il sound researcher Eugenio Caria (Saffronkeira) intesse i brani col jazz artist Paolo Fresu.
“In Origine: The Field Of Repentance” è una riflessione sulla circolarità del tempo, sull’eterno ritorno dell’uguale di nietzschiana radice, ispirata da una contingenza quantomai incline a fosche visioni che vedono l’essere umano assoluto protagonista dell’infinito ciclo di creazione e distruzione, motore dell’evoluzione del cosmo. Da tale premessa prende le mosse l’ammaliante viaggio sonico plasmato da Caria insieme a Fresu, fertile collaborazione tra i due musicisti sardi inizialmente limitata a un contributo del trombettista su una singola traccia e rapidamente tramutatasi in un nuovo contaminato tracciato che vede fondersi elettronica e jazz. Vi troviamo beat irrequieti sopra cui corrono nervose le note di “The Field Of Repentance”, i drones ridotti in catene di “Periodi remoti”, le fate morgane di palpiti e corde che innervano gli umori urbani di “Harmony Of Chaos”, i fraseggi parlanti di “Religion As An Illusion”, le risonanze di “Disorderly Of Life” e le pulsazioni basse di “Capernaum” sulla quale si staglia, epica, la tromba.
Chiude, riappacificandoci col cosmo, “In Origine”, con echi dream-pop che s’infrangono lungo il mare.
Inserendosi nella scia di una ricerca che vanta un trascorso consolidato nel jazz – basti pensare al controverso “Tutu” (Warner, 1986) di Miles Davis, alle infinite intersezioni di Toshinori Kondō o al quarto mondo di Jon Hassell – e che osa sempre più contaminazioni nell’elettronica – come il progetto Not Waving & Dark Mark di Alessio Natalizia e Mark Lanegan – il connubio che vede affiancati i paesaggi sintetici di Saffronkeira e l’elegiaco orizzonte armonico di Fresu esplora una dimensione ibrida interamente giocata sul costante incastro tra le parti, non necessariamente incline all’assonanza quanto piuttosto rivolta a un’inattesa compatibilità. Profondi chiaroscuri tecnologici e romantiche risonanze acustiche si confrontano generando una cinematica sequenza di vividi ambienti metafisici frutto di una sinergia profonda e immaginifica. La risultante è naturale e sintetica allo stesso tempo, sfrangiata e compatta, immateriale e tangibile, facendo confluire in un’unità termini solitamente antinomici, come nella bellissima “Due Poli”, con una disinvoltura tale da ricordare le perfette equazioni musicali di Bjork.
Un album di grande statura e respiro internazionale, capace di correre oltre qualsiasi confine geografico portando dentro di sé il mistero profondo (e il segreto, che conoscono i loro musicisti) di quella terra antica e meravigliosa che è la Sardegna.
09/11/2020