Sei album pubblicati in otto anni, fra il 1999 e il 2007, protagonisti assoluti (assieme a Strokes e Black Rebel Motorcycle Club) di una nuova ondata musicale dalle evidenti rifrazioni vintage che si sviluppò al cambio di millennio, almeno un brano divenuto nella percezione popolare un vero e proprio evergreen, “Seven Nation Army”, la fissa per l’estetica espressa attraverso geometrici cromatismi che incrociano il bianco, il rosso e il nero. Rispetto all’organizzazione d altre band coeve, si caratterizzavano per essere composti da soli due membri (lanciando di fatto un atteggiamento presto seguito da molti altri), Meg White alla batteria e Jack White a tutto il resto, ma soprattutto per l’intrigante scelta di lasciare un velo di mistero sui loro rapporti personali (fratello e sorella? Marito e moglie? Amanti occasionali? Semplici amici? Connubio artistico e stop?).
Sta di fatto che Meg White, a un certo punto, convolò a nozze con il figlio di Patti e Fred Smith, e scelse di abbandonare qualsiasi attività artistica. I White Stripes si sciolsero nel nulla, così, e Jack White continuò a muoversi in mille direzioni, ma questa è un’altra storia. Nel 2020 i due (o soltanto Jack?) hanno deciso che i tempi fossero maturi per pubblicare una retrospettiva, contenente alcune fra le tracce più rappresentative del loro percorso in comune. Ventisei brani in tutto, una sorta di playlist fisica – non cronologica – ascoltando la quale non si può che ribadire e rafforzare quanto di buono è stato detto negli anni sul duo di Detroit, in grado di rileggere la lezione dei maestri con creatività tutta propria.
Un sound che il tempo non ha scalfito, proprio perché trattasi di musica fuori dal tempo, radicata nel diabolico e polveroso blues del Delta e nell’anarchia isterica del rock’n’roll più intriso di sudore. Come riesumare in un colpo solo Robert Johnson, Jimi Hendrix, gli Stooges e i Led Zeppelin, omaggiando la storia senza mai essere troppo ossequiosi. L’approccio è minimale, ma al contempo incendiario: un drumming semplice e ripetitivo, una chitarra (e una voce) strepitosa, esaltati da un’invidiabile qualità di scrittura. Brani divenuti piccoli classici, come “Fell In Love With A Girl” o “I Just Don’t Know What To Do With Myself” (cover di Bacharach) sono qui a testimoniarlo, e ancor più i tanti momenti memorabili raccolti: dagli oltre sei minuti dell’infuocata “Ball And Biscuit” ai due del travolgente country schizoide di “Hotel Yorba”, dal falsetto annegato nei riff assassini di “Blue Orchid” alla geniale sintesi giovanile di “I Think I Smell A Rat”.
Si pesca uniformemente da tutti gli album del gruppo (“Jolene”, cover di Dolly Parton, era “soltanto” il retro del singolo “Hello Operator”), partendo dal debut-single, “Let’s Shake Hands”, registrato nel soggiorno di casa e pubblicato a marzo del 1998, successivamente ristampato in tiratura limitata e inserito come bonus track nella japanese version del loro primo omonimo album. In “White Stripes” figurava anche “The Big Three Killed My Baby”, il loro terzo singolo, un punk-blues deviato che attaccava le ingiustizie di Ford, GM e Chrysler, assestando il terreno per le deflagrazioni in divenire. Tutto il resto è storia, più o meno nota, e terminato l’ascolto, resta un quesito: perché proprio ora? Che Jack stia preparando un’inattesa sorpresa per i prossimi mesi?
11/01/2021