Ci sono dischi che, come si suol dire, riescono a cogliere lo "spirito dei tempi", il che non significa, banalmente, come pretenderebbero diverse agenzie di stampa, che un musicista o una band, nel momento in cui decidono di concentrare la propria attenzione su questo o quel problema del mondo di oggi, meritino immediatamente la nostra attenzione. Cogliere musicalmente quello che i tedeschi chiamano zeitgeist significa, almeno dalle mie parti, trasferire sul pentagramma tutta l'inquietudine e l'angoscia di questi anni così instabili, esplorandone le contraddizioni attraverso una compenetrazione tra forma e contenuto che sappia resistere a ogni tentativo di banalizzazione. Di solito, si tratta di dischi ostici, magari perfettibili, ma sempre vitalissimi. "House Of Lull. House Of When" di Alexis Marshall è l'ultimo esempio, in ordine di tempo, che potrei fare per avvalorare la suddetta tesi.
Presosi una pausa dall'esperienza con i Daughters (che tre anni or sono confermarono tutto il loro talento con il poderoso "You Won't Get What You Want"), Marshall è riuscito finalmente a venire a patti col proprio desiderio di "avere il completo controllo di qualcosa", come ha rivelato in una recente intervista. Guidato dal disinteresse per qualsiasi idea di perfezione e dalla volontà di creare un disco di brutale sincerità, un'entità viva in cui il detrito sonoro è la traccia più evidente di un'anima che vuole darsi nuda e cruda in pasto all'ascoltatore, il Nostro ha chiamato a sé il chitarrista Evan Patterson (Jaye Jayle, Young Widows) e altri due membri dei Daughters, Nicholas Sadler e Jon Syverson, rispettivamente a chitarra e batteria, per registrare una manciata di brani (curati in cabina di regia dal produttore Seth Manchester) che abitano un'oscura landa sonora in cui l'industrial dei primissimi Throbbing Gristle, il disagio no-wave-noise degli Swans, le crisi esistenziali del Nick Cave epoca "From Her To Eternity" e le scarne litanie percussive dei Public Image Ltd. di "Flowers Of Romance" convivono in (im)perfetto equilibrio, generando quello che potrebbe essere definito come un esempio di "cantautorato post-industriale per anime in pena".
"Drink From The Oceans. Nothing Can Harm You" è la prima stazione di questa privatissima via crucis. Nel buio, si materializzano spenti accordi di pianoforte e folate sintetiche che fanno pensare a una brezza spettrale. In un'atmosfera di trepidante attesa, lo spoken word di Marshall (qui un un Nick Cave slavato alle prese con parole tanto lapidarie quanto ermetiche) continua a girare intorno all'attestazione dell'esserci, nel tentativo di resistere a una disperazione che ha già lasciato dietro di sé fin troppe macerie. Poi, il tessuto sonoro esplode: frequenze e tamburi schizzano dalle casse e raggiungono le nostre orecchie come una raffica di schiaffi dolorosissimi.
Come drift across the rooftops. I am here.La circolarità ritmica di "Hounds In The Abyss" edifica un rituale di autoflagellazione carico di paranoia e ansia. E se non vi basta questa strizzatina d'occhio a quei misteriosi Pil del 1981, ascoltate anche, e in rapida successione, "Religion As Leader" (dove la batteria è pura geometria dell'oscurità, mentre Marshall e l'ospite Kristin Hayter aka Lingua Ignota devastano lo spazio con dosi incontrollate di angoscia) e "Open Mouth" (tamburi sempre più opprimenti, sciami di rumore, feedback in bilico sul precipizio e coro di fantasmi perso nella penombra di un incubo), brani che proseguono nel solco inaugurato dal singolo "Nature In Three Movements", pubblicato nell'agosto dello scorso anno per saggiare la reazione dei fan.
Come glide across the rooftops. I am here.
Come glean across the rooftops. I am here.
I am here
15/10/2021