Sono passati dodici anni dall’esordio di Fredo Viola, “The Turn”, ma il passare del tempo non ha attenuato l’impatto e l’intensità di un immaginario sonoro e visuale originale come pochi. Musica classica, folk, gothic, gospel, contemporanea, surf, colonne sonore, musica brasiliana e psichedelia sono i semi di un frutto sonoro nello stesso tempo succoso e aspro, barocco e astratto, melodico e inafferrabile.
Quando nel 2014, con il secondo album “The Revolutionary Son”, Fredo Viola ha ribadito le peculiarità del proprio stile, si percepiva altresì la necessità di una rivoluzione e di una ristrutturazione, al fine di rendere più vivida una formula creativa forse troppo ricca di spunti e di esuberanze art-pop, che non assicurava quell’empatia necessaria per entrare nel fatato mondo di suoni e immagini del musicista americano.
Sotto le dichiarate influenze di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, Kurt Weill, Benjamin Britten, Antonio Carlos Jobim e Maurice Jaubert, Fredo Viola con il terzo album si avventura nella sua opera più compiuta e affascinante, grazie alla scelta di mettere a nudo l’essenza armonica delle composizioni. Da così vita a un progetto musicale imponente e regale, al punto da assurgere a prototipo di una musica pop dalle nuance neo-operistiche.
“My New Head” è l’album più vulnerabile e schietto di Viola, un disco che giunge dopo anni non facili per il musicista, prima costretto a uno stop di cinque anni per curare la malattia di Lyme, un'infezione causata dalle zecche, poi impegnato nella campagna di crowdfunding per raccogliere i fondi necessari per la registrazione e la produzione.
Pur senza aver risolto tutti i problemi legati alla diffusione e commercializzazione del progetto, le case discografiche sono al limite della cecità al punto da aver chiesto a Fredo di svendere la propria arte come musica queer. “My New Head” vede finalmente la luce dopo continui rinvii nonché anticipazioni dei contenuti a solo beneficio del non ristretto, oltreché fedele, nucleo di fan.
La ricca tavolozza di armonie e suoni e la stratificazione quasi tridimensionale degli arrangiamenti non sono mai state cosi vivide e suggestive. Merito anche di una particolare attenzione in sede di registrazione da parte di tutti i musicisti coinvolti nel progetto: Carl Albach (tromba), Barry Crawford (flauto), Brent Follis (batteria), Diva Goodfriend-Koven (flauto), Justin Guip (batteria), Adam Marks (piano), Luis Mojica (voci, percussioni), Adrian Morejon (fagotto), Ike Sturm (contrabbasso), Liuh-Wen Ting (viola), Kyle Turne (tuba).
“My New Head” è simbolicamente l’album della rinascita e della rigenerazione, ed è quindi naturale che a introdurre il racconto sia un brano intitolato “Demolition”: poche note di carillon (“Suspiria” docet) che dischiudono le porte dalle quali penetra il vaneggio di suoni (piano e tromba) e rumori (utensili), immersi nel dispiego di note funebri dell’ammaliante e oscura “Pine Birds”.
Niente paura: il confine tra sgomento e letizia è una sfida che Viola affronta con determinazione e audacia. La straordinaria architettura à-la Kurt Weill di “Clouded Mirror” è solo un pretesto per una giostra di atmosfere folk, psichedeliche e chamber-pop che si avvicendano con un pathos espressivo sontuoso e rarefatto nello stesso tempo.
Su queste coordinate ora accennate si sviluppa l’album, mettendo in evidenza la maturità raggiunta dall’autore, prima brillante protagonista con la sua voce del gioco di incastri e armonie polifoniche della rarefatta e cinematica “Black Box”, e quindi autentico mattatore di un pezzo da novanta dalle sfumature teatrali e tenebrose, carezzate da una poetica intensa e struggente, “In My Mouth”. Un momento catartico dell’album che disloca le atmosfere verso una malinconia quasi felliniana, che Fredo sottolinea con un tripudio di applausi e una fuga dalla scena (“Edwin Vargas”), indi scandita sulle note di “The Happening”, un brano del precedente album, qui rielaborato e riscritto in chiave orchestrale/bandistica.
La sintesi art-pop del musicista americano non è mai stata così vivida. Il chamber-folk-pop di “Waiting For Seth” fa impallidire Neil Hannon, la mini-sinfonia per piano e voce di “Stars And Rainbows” risveglia la grazia di Britten e Morricone, mentre la struggente e oscura malinconia di “Sunset Road” profuma di erba bagnata tra le dita e vento gelido negli occhi.
Etereo ed avvincente nello stesso tempo, “In My Head” è la celebrazione del suono come arte del fantastico: gli arrangiamenti sono arditi e a volte perfino irriverenti (l’ironico sberleffo di “Kick The Sick”), sempre un gradino sopra la media di quel che da anni viene sbandierato come art-pop.
Per tutti quelli che poi avranno la pazienza di arrivare al termine, non preoccupatevi: l’album dura solo 39 minuti e c’è la doppia sorpresa finale. La prima è offerta dalla canzone più pop di Viola, “My Secret Power”, un brano che mette insieme la solarità dei Beach Boys e la saudade di Antonio Carlos Jobim su un lieve tappeto di sonorità elettroniche retrò, alle quali spetta il compito di anticipare la seconda sorpresa: una raggiante e colta cover del grande successo di Petula Clark “Downtown”.
Album che va ben oltre le attese, “My New Head” trasuda emozioni e sapienza. Un progetto che ribadisce tutte le possibilità che ancora offre l’arte della musica pop, un set di canzoni fluido come un racconto, un film dai colori ora sgargianti ora cupi, un libro di fiabe gioiose o decadenti, una sequenza di emozioni che Fredo Viola eleva a stato dell’arte, candidando il disco al vertice del pur lontano consuntivo di fine anno.
13/04/2021