Quanto è dura la sorte di chi ancora si ostina a credere in una forma d’arte chiamata musica, ancor più dura per chi tenta di raccontarla nel tentativo di appassionare l’amico o il sempre più distratto lettore, colpa peraltro della quantità enorme di pubblicazioni contemporanee. Sono qui pronto a recitare un
mea culpa, causato da una di quelle curiose coincidenze umorali che ti obbligano ad ascolti fugaci o ad accantonare progetti degni d’attenzione. Avevo già assaporato le qualità di Olivier Rocabois ascoltando il suo primo ottimo singolo “Ship Of Women” e avevo più volte preso dalla pila di cd posti vicino al lettore l’album “Goes Too Far”, per poi restare sopraffatto dall’asettica routine di un anno emotivamente sfibrante. Stavo prestando attenzione all’ultimo progetto di
John Howard e il pensiero è tornato all’album di Olivier Rocabois, merito anche di un breve colloquio con un amico, e finalmente ho potuto rendere giustizia a un disco fuori dagli standard.
Sia ben chiaro che le radici della musica dell’artista francese sono alquanto semplici e immediatamente riconoscibili:
Paul McCartney in primis (l’album prende il titolo da un disco che il Macca aveva progettato quando era ancora nei
Beatles e poi mai realizzato), ma anche i
Beach Boys,
Harry Nilsson,
Scott Walker e gli
Steely Dan, senza dimenticare il connazionale Michel Polnareff, ma il risultato ha poco in comune con i sopracitati.
Autodidatta, autore dotato di una scrittura agile e versatile, Rocabois conosce e sperimenta soluzioni d’arrangiamento che lasciano il segno, stravolgendo il termine pop e arricchendolo di sfumature
chamber, indie,
prog, folk e jazz. “Goes Too Far” non è uno di quei dischi che si apprezzano solo grazie alle ventate di
deja-vu, non è un album carino, ma è creativo e intrigante in ogni suo aspetto, anche in quelli meno a fuoco, come alcune prestazioni vocali. E’ sintomatico il fatto che, dopo anni passati dietro il
moniker All If, Olivier Rocabois abbia trovato il coraggio di scendere in campo con il suo nome e cognome, segno di un artista che non ha paura di commettere errori o di gettarsi a capofitto in soluzioni non sempre confortevoli.
L’amabile stravaganza da musical di “High As High” è una delle pagine pop più avventurose, al pari dello swing-jazz lievemente psichedelico e beat di “In My Drunken Dreamscape”, per il quale il musicista prende a prestito perfino la surreale attitudine dei Monty Python nella pregevole jam strumentale che domina la seconda parte del brano.
Ci sono gli anni 70 del primo
David Bowie e di
Elton John in “Arise Sir Richard”, la grazia
baroque-pop di
Neil Hannon nella complessa architettura di “Let Me Laugh Like A Drunk Witch” e anche un rischioso salto nella sperimentazione e nella dissonanza nella mini-soap-opera sonora di “I’d Like To Make My Exit With Panache”.
Rocabois ha tutte le carte per poter mettere in piedi un album pop di grande impatto emotivo, un pregio evidente già nel delicato e agrodolce brio acustico di “The Sound Of The Waves”, ben presto supportato da un elegante incastro pop-soul-jazz alla Steely Dan e vivacizzato da un'originale sezione fiati nel finale.
Certo, le doti vocali non sono il punto di forza di “Goes Too Far”. D’altronde, lo stesso autore predilige interpretare più che decantare le sue canzoni (“Hometown Boys”) e quando sa di avere tra le mani un preziosa intuizione lirica e armonica, la offre per un duetto che da solo vale il prezzo del biglietto. E' infatti uno dei suoi idoli, John Howard, il partner perfetto per il brano più intenso e rimarchevole dell’album: “Tonight I Need”.
L’esordio di Olivier Rocabois apre interessanti sviluppi per la canzone d’autore, nello stesso tempo porta alla luce un talento non facilmente catalogabile, ambizioso e audace, al punto da affidare ai quasi sette minuti della finale “Why Wounds Started Healing” un delizioso
melting pot dai toni
chamber-pop-prog, che ricorda l’interessante progetto di Andrew Gold sotto il nome di Fraternal Order Of The All. Una brillante esternazione dell’eclettismo per un autore da tenere decisamente sott’occhio.