Formula vincente non si cambia, giusto? Sam Fender questo lo sa bene, ma non si ferma lì, anzi, rincara la dose. Se nel suo debut aleggiava un retrogusto indie che lambiva gli Strokes quanto i War On Drugs, questo "Seventeen Going Under" va dritto al sodo e cala assoli di sassofono e cavalcate elettriche sin dalla prima, gloriosa traccia omonima. Un brano che, viene da pensare, Springsteen in persona apprezzerebbe e canterebbe volentieri.
"Getting Started" abbassa un po' il ritmo, ma il cantato rimane incalzante e l'atmosfera quella di una periferia bisognosa di rivalsa. Con tanto di handclapping, "Aye" è un brano pensato interamente per facilitare il sudore delle arene; mentre "Long Way Off", tra i brani più originali della partita, trae linfa da una matassa di sincopati arpeggi folk.
Difficile capire come a un ventisettenne inglese venga in mente di strutturare un disco come se fosse Springsteen negli anni Ottanta alla vigilia di un tour mondiale, ma la convinzione - o l'immedesimazione - è tale da far girare le cose molto bene. Almeno finché la seconda parte del disco non inciampa in un paio di lenti di troppo, o semplicemente troppo vicini - "The Last To Make It Home" e "Mantra", entrambe penalizzate anche da arrangiamenti non proprio originalissimi.
Rispetto a "Hypersonic Missiles", "Seventeen Going Under" mostra una certa crescita di Fender dal lato lirico. La sfacciatezza politica, invero un po' ingenua, di brani diretti come "White Privilege" lascia il posto dunque a racconti di vita reale struggenti e potenti, talvolta autobiografici, che il sottotesto sociale si limitano a evocarlo. E si sa, quando questo emerge spontaneamente, arriva più forte che mai.
Poiché sembra che a Fender interessi molto poco un'evoluzione musicale, è forse da auspicare che cresca e insista proprio sull'aspetto testuale. Augurandoci per lui un futuro più rivolto al cantautorato che agli stadi. È forse arrivato il momento di riascoltarsi "Nebraska", Sam?
(17/10/2021)