Introduzione: Pennellando il cosmo con i colori della mente
You feel it coming right through you
The color of your mind
Victoria ce lo cantava già in “Lemon Glow” e proprio da quella prefigurazione riprende il percorso artistico-musicale del duo di Baltimora, a quattro anni dall’ennesimo gioiellino dream-pop. I paesaggi sonori e i colori psichici di “7”, il pulsare delle stelle e lo sfrigolare delle comete racchiusi nelle vesti di seta di quelle undici composizioni rimangono i punti di riferimento per il nuovo, imponente e ambizioso lavoro a nome Beach House, costituito da diciotto canzoni, suddivise in quattro capitoli rilasciati a circa un mese di distanza l’uno dall’altro.
“Once Twice Melody” è una narrazione, una traiettoria puramente emozionale. I video dai tratti decisamente psichedelici che accompagnano ogni brano sembrano infatti suggerire l’intento di Victoria e Alex di avventurarsi al di là di un’esperienza puramente razionale e sensoriale. E se la musica del duo si è sempre mossa ai limiti di questa soglia, ora prova a varcarla, a lambire e a penetrare le pareti dell’Ultraterreno. E per poter rappresentare in musica un simile viaggio, i Beach House si sono dovuti appropriare di un linguaggio simbolico ed espressionista che fosse in grado di ombreggiare e pennellare con dei colori vividi questo spazio mentale che anela all’infinità. Ed ecco allora che Victoria tratteggia scenografie cosmiche, soliloqui interiori nel ventre del cielo e monologhi che paiono aleggiare nel vuoto universale, ma che sono invece diretti a un concistoro siderale.
Capitolo 1: Un requiem rosa per Amore
Il capitolo introduttivo è forse quello caratterizzato dal linguaggio più astratto. I palcoscenici dei brani non hanno limiti di estensione e si tuffano nel cielo profondo: “When you where mine/ we fell across the sky/ it may be out of sight, but never out of mind”, canta infatti la musicista nella seconda lunga traccia, “Superstar”. Qui, con un prodigio di alchimia sonora, il duo mescola indie-rock sintetico e dream-pop moderno e si avventura sul finale in un crescendo percussivo da brividi, orchestrato con trame d’archi e sintetizzatori spaziali.
Ma questa prima parte della raccolta anticipa e mette in scena anche il movimento conflittuale che caratterizza l’intero disco, cioè il contrasto tra l’idillio dell’amore nascente e il momento del frantumarsi della relazione, tra la dolce rimembranza del periodo gioioso e il ricordo sofferto della sua fine. Il duo si inserisce nella dinamica contrastiva di questo spazio interstiziale ed esplora il carosello emotivo che vi dimora. “Pink Funeral”, forse l’esempio emblematico di questa avventura di ricerca, è un vero e proprio requiem per Amore e si libra tra orchestrazioni sinistre e rigogliose tonalità rosacee, nostalgia ed estasi, lamentazione funeraria e un tramonto indimenticabile. Il linguaggio elegiaco del testo viene finanche trasposto nel fraseggio blues dell’assolo conclusivo, che funge da commiato sì mesto e lacrimoso, ma capace di immergersi nella sinfonia della Via Lattea.
Capitolo 2: Apparizioni al chiaro di luna
Sono gli organetti di “Devotion” filtrati dal romanticismo di “Depression Cherry” a introdurre chi ascolta nel secondo capitolo del disco. Qui nei primi tre brani ci si allontana dall’astrazione precedente e si abbraccia una dimensione più tangibile e concreta. Lo spazio interstiziale del regno d’Amore viene osservato ora da un’altra angolazione e divengono centrali i temi della fuga e della distanza e della premonizione della fine di una relazione amorosa. Se nella ballata “ESP”, sospesa in coltri vaporose, si intravvede lo sfilacciarsi del rapporto, “New Romance” dipinge invece un saliscendi emotivo tra impeti di nostalgia, dichiarazioni di un amore che ancora brucia nel petto e il desiderio di voltare pagina, di rivestirsi, fisicamente e metaforicamente, per concedersi a nuove avventure sentimentali. E nello sfarfallio sognante si vede tralucere la separazione definitiva: “You’re somebody else, somebody new/ 'fuck it' you said, 'it’s beginning to look like the end'/ so sick of swimming, I’m in over my head/ no wrong or right, I know it’s true”.
Ma poi ecco che nella solitudine meditabonda, quando le luci artificiali della città si spengono una a una, si manifesta improvvisamente, calando dal cielo, una dolce apparizione selenica: degli angioletti immersi nel luccichio lunare e adornati da coreografie di lillà, gigli, anemoni e rose scendono vorticando per spalancare la visione dell’Invisibile e dell’Ineffabile. Le parole sono insufficienti a descrivere questa realtà non-umana e lasciano lo spazio a una lunghissima coda strumentale che fa dell’accumulo e della reiterazione la chiave di volta per ricondurre a un’esperienza sensoriale quanto scorto nell’epifania estatica. I suoni melodiosi della Candida Rosa del Paradiso dantesco, la musica delle sfere, la purezza mistica di un canto sacro si armonizzano così in una delle più pregevoli orchestrazioni emozionali mai realizzate dal duo di Baltimora. E se questo è davvero il suono della notte che non ha fine, il suo amplesso eterno ci consumerà nella più estrema beatitudine over and over.
Capitolo 3: Mascherate illusioni
Se non fosse per le inaspettate ondate sintetiche di “Masquerade”, il terzo, sarebbe forse il capitolo più “tradizionalmente Beach House”. Si ritrovano infatti atmosfere malinconiche, luci crepuscolari, aloni di polvere di stelle (“Sunset” e “Illusion Of Forever”), arpeggi scintillanti di tastiere (“Only You Know”), effetti e filtri vocali, fumosi tappeti d’organo (“Another Go Around”) e quel beat di “Illusion Of Forever” che richiama immediatamente alla memoria tattile il velluto rosso di “Depression Cherry”.
Ma come ci avevano già dimostrato in alcuni sprazzi di “7”, la cristalleria scintillante dei Beach House sa anche offuscarsi in un più lugubre affresco cinereo. E così, in quel gioiello che è “Masquerade”, rintocchi sepolcrali, synth da seduta spiritica, echi di sussurri spiritati, rifrazioni di specchi deformanti, porcellane e sfere di cristallo, candele e candelabri, incensi e suffumigi avvolgono e sfumano gli occhi mascherati di una misteriosa figura femminile, a metà strada tra femme fatale, incantatrice klimtiana e spiritista in dialogo con l’oltretomba. E se anche è destinata a ritornare tra le ombre da cui è fuoriuscita, la donna di “Masquerade” rimarrà la più inconsueta, e fors’anche la più memorabile, tra le fugaci apparizioni soprannaturali di “Once Twice Melody”.
They’ll come at night, to take her back
Light each candle, here tonight then gone forever
Capitolo 4: L’inizio della fine
Il capitolo conclusivo è quello più introspettivo e solipsistico: la luce dell’altro diventa fioca e il monologo interiore prende il sopravvento. La notte si avvicina. Il tempo rimanente sembra sfuggire via tra le dita. Il respiro celeste e i Bpm rallentano. E così, mentre il firmamento stellato giganteggia nella sua immensità, le ballad “The Bells” e “Many Nights” ripropongono un dream-pop narcolettico, memore dell’eredità artistica dei Mazzy Star. Eppure, prima del gran finale, trova spazio il romanticismo luminoso di “Hurts To Love”:
If it hurts to love
You better do it anyway
If it hurts to love
Well I loved you anyway
Dopo più di tre lustri di una carriera che ha ormai davvero dell’incredibile, Victoria e Alex condensano così in pochi accordi arpeggiati su tastiera e organetto l’essenza del proprio mondo musicale e incidono un vero e proprio inno all’amore, che, alla fine, è anche un inno alla vita. Una vita che peraltro brama il ricongiungimento con quell’Universo che l’ha generata e che riesce infine a trovarlo in “Modern Love Stories”, il capolavoro lirico con cui i Beach House decidono di congedarsi da ascoltatrici e ascoltatori. Un tappeto sintetico e un arrangiamento orchestrale da melodramma avvolgono l’ascesa nell’abbraccio cosmico versificata dalla Legrand, tra cancellazione della cronologia storica e universale, polvere di stelle e oscurità primordiale, per poi evaporare in un assolo mellifluo e dorato che rappresenta quell’ultimo lumino rimasto acceso prima dello spegnimento nel silenzio.
Conclusione: Cosa c’è dopo l’abbraccio del respiro cosmico?
“Once Twice Melody” è un album grandioso e sfaccettato, caratterizzato da un sound maestoso, capace di sfruttare completamente gli inediti arrangiamenti per orchestra di cui si sono avvalsi i Beach House. È la summa delle diverse anime del duo, ma anche, e soprattutto, pura melodia, angelica e trasognata. Non c’è un singolo momento debole in questa raccolta di canzoni e la rete di richiami intratestuali è fittissima.
Forse non sarà il disco più bello o non diventerà il più amato, ma di certo “Once Twice Melody” si impone come il monolite definitivo della loro carriera. Se e quando decideranno di tornare, Alex e Victoria dovranno ricominciare da zero. L’abbraccio del respiro cosmico ha posto la parola fine a una parabola artistica che trova ben pochi eguali nel panorama musicale indipendente degli ultimi vent’anni. E se questa, dunque, è la fine, ci sarà bisogno di un nuovo inizio. Un inizio che dovrà saper fare tesoro di questa recente esperienza e che dovrà, ancora una volta, andare in quell’Oltre che solo i Beach House sono in grado di visualizzare o, meglio, di immaginare.
15/02/2022