Buio. Si accende un fiammifero. Il piano tratteggia un’elegante danza. Così si apre il sipario sul mondo sciamanico di Diego Cignitti, alias Cigno, prima che pulsazioni di bassi nero pece e cori da camera inizino a scandire l’incedere di “Colobraro”.
Inizia così una marcia inesauribile, fatta di invettive e sacrifici, di luci che squarciano le tenebre attraversando paesi ed epoche, inizia così “Morte e pianto rituale”, opera prima di questo cantautore laziale che, rinchiuso nella sua stanza senza luci, inizia a imprimere nero su nero idee e sensazioni.
Cigno incrocia nel corso del suo esordio sulla lunga distanza battiti industrial da distopia post-moderna e danze pagane urticanti che incontrano sul loro percorso le immagini da bestiario di
Capossela e riflessioni socio-politiche che chiamano in causa
Cccp e Csi, ricordando in questa fusione, in più di un frangente, le sperimentazioni sonore di
Iosonouncane. Nomi di un certo peso, direte, vero: influenze pesanti da cui però Cigno riesce a trarre vigore con personalità estrema; esse infatti non sono altro che le scintille che il nostro utilizzerà per appiccare il fuoco sacro attorno al quale invocare spiriti e visioni allucinate.
La già nominata “Colobraro” fa divampare per prima le fiamme della follia, mostrando un mondo da cui sembra impossibile fuggire ed è seguita a ruota da “Protestanti”, che si costruisce su un palpitio sintetico che sembra poter esplodere in un pezzo ballabile e invece, dopo un rapido momento sussurrato, lascia spazio a un giro ritmico quasi stoner su cui un’incendiaria chitarra blues nel midollo fa piazza pulita di ogni certezza.
Le voci spettrali e poliglotte di “La terra del rimorso” ricordano da vicino quelle di "
Ira" e trascinano rapidamente negli oscuri e melmosi abissi di “Mare nero”, potentissima invettiva che scandaglia temi come schiavismo e razzismo tra lugubri suoni di catene.
La doppietta composta da “La classe operaia va in paradiso”, ancora marchiata da martellanti dinamiche industriali e blues, e “Postcapitalismo”, il pezzo più punk e
ferrettiano del lotto (con qualche tratto
shoegaze), si fa manifesto della musica “contro” di Cigno, musica che è azione concreta per combattere e resistere.
A precedere e seguire queste due gemme di controcultura contemporanea sono posti due strumentali: l’intransigente “Pietra sprecata”, retto da una nodosa chitarra acustica di stampo
Marta sui tubi, e “Kabul”, che conclude il rito di Cigno mostrandoci paesaggi orientali screziati dall’elettronica, commistione che non può non far andare la mente alla storia recente di quei luoghi e, di conseguenza, anche alla terribile attualità.
È un disco di magia e mistero, questo “Morte e pianto rituale”, che però non lascia scampo all’ascoltatore, coinvolgendolo profondamente nelle istanze sociali di cui si fa portavoce o su cui vuole indurre una riflessione. Una specie di realismo-magico mediterraneo (e non solo) nato per esorcizzare fantasmi e storture della società occidentale, riprendendo con merito e maestria il titolo e molti contenuti del celebre saggio di Ernesto De Martino.
Sicuramente quella di Cigno è una delle opere più sorprendenti uscite dalla nostra penisola in questo primo scorcio di anno e ci consegna un autore già maturo, da tenere attentamente sotto osservazione per il futuro musicale (e sociale) del nostro paese.
07/03/2022