Chi è Daniel Bejar? Qualcuno lo ha mai capito davvero? Sono ormai più di vent'anni che il cantautore di Vancouver si aggira per il mondo della musica pop instancabilmente, cambiando a ogni passo le carte in tavola, e proprio per questo diventa difficile comprendere chi sia davvero quest'uomo che non rimane mai se stesso, eppure ad ogni nuova uscita non si può fare a meno di individuare immediatamente la sua cifra stilistica. Un cuore artistico pulsante che ce lo fa individuare dietro a ogni sfaccettatura.
In poche parole, Dan Bejar è un artista, uno di quelli veri, e con questo nuovo capitolo della sua storia è qui per affermarlo di nuovo, anzi, forse per confermarlo come mai prima.
"Labyrinthitis" è un album intricato, che sa essere vigoroso e delicato, esattamente come i rami dell'albero che compaiono in copertina, forti e robusti ma dipinti con la leggerezza dell'acquerello da un animo elegante ma misterioso, forse a volte un po' aspro, che si dirama in modo contorto. Un albero che è da solo una foresta, in cui albergano l'animo nudo dell'uomo, senza fronzoli (o fronde) a coprirlo e quello camuffato del musicista.
È proprio questo che Dan ha voluto svelarci in questo nuovo capitolo della storia della sua sigla Destroyer, la sua delicata complessità.
Ha deciso di farlo con trame nuove e audaci, approcciando la sua classica materia sintetica in modo sorprendente, mai così elettronico e progressivo, mai così consapevole degli insegnamenti del lato più "art" della new wave ballabile e decadente di Bowie, Eno e Talking Heads, e allo stesso tempo mai così attento a esprimersi completamente, umanamente e artisticamente.
Il tappeto sognante e il testo toccante e minimale di "It's In Your Heart Now" danno il via alle danze che diventeranno veramente tali già dalla successiva, palpitante "Suffer".
L'ottimo trittico iniziale si chiude con la prima gemma del disco, "June", che trasfigura la soft music anni Ottanta attraverso strategie produttive che le danno un retrogusto psichedelico fino alla coda finale, che combina queste trovate oniriche con ritmi funk e un inatteso e intenso spoken word che si disperde lentamente tra suoni disturbanti.
La successiva "All My Pretty Dresses" riporta per un attimo la mente ai tempi di "Kaputt", prima che si palesi il vero manifesto e capolavoro del disco. "Tintoretto, It's For You" è una canzone selvaggia e conturbante in cui Destroyer, tra grovigli di synth, chitarre e pianoforti, riporta in vita con voce luciferina l'animo ribollente dell'artista cui è dedicato il titolo.
La rilassatezza malinconica e strumentale della title track dà respiro dalle impetuose stravaganze di Dan e riesce con grazia a toccare l'ascoltatore prima di farlo rituffare tra ritmiche funky-dance che rimangono soprattutto in territori chiaroscurali ("Eat The Wine, Drink The Bread", "The States") ma concedono spazio anche a sentori più solari ("It Takes A Thief"), forse non a fuoco ed eclatanti come nella prima parte del disco ma comunque ben riusciti.
Il dipinto di Destroyer si conclude in modo didascalico ma anti-intuitivo, e per questo leggermente malizioso, con "The Last Song", che ci saluta dopo un viaggio tra intrecci di ritmiche e battiti frenetici, di parole e melodie focose, con la semplicità di una breve ballad elettroacustica che lascia Dan spoglio e stremato a guardarci forse un po' gongolante dal multiforme albero delle sue idee, perché in fin dei conti lui sa benissimo chi è e, anche se non ne aveva particolare bisogno, è convinto di avercelo mostrato ancora una volta.
01/04/2022