Quando lo shoegaze spinge per diventare adulto.
"Heart Under" è il secondo album della band irlandese Just Mustard, un disco che ha il chiaro obiettivo d'incutere terrore strisciante nell'ascoltatore e innalzare progressivamente un livello di turbamento che appare sempre a un millimetro dalla deflagrazione totale.
La voce di Katie Ball è candida, perfetta se fosse inserita in comodi afflati indie-pop, ma l'averla affogata all'interno di una sezione ritmica composta dalle ossessive linee di basso di Rob Clarke, dalla potente batteria di Shane Maguire e soprattutto dalle staffilate chitarristiche di David Noonan e Mete Kalyoncuoglu, rende ancor più sinistro un habitat antitetico ammaestrato in una fanghiglia oscura e catramosa, che pare fagocitare ogni tipo di rumore transitante nei paraggi. Noonan, in particolare, sembra utilizzare la sua chitarra come un attrezzo a percussione, proferendo martellanti suoni da pietra focaia tra fondali pieni di riverberi noise-industrial e producendo scaglie di scintille incandescenti che si riversano addosso tra lame rotanti fendenti sontuose barre di metallo.
Nella sua inquietante e seducente miscela di shoegaze, post-rock, gothic-rock, trip-hop e un pizzico alt-metal fine anni 90, il fascino di "Heart Under" si concretizza nel continuo perseverare su questi scenari conflittuali e, a differenza di quanto accaduto in "Wednesday", il loro debutto datato 2018, si scorge un maggior controllo nel pilotare questi incantesimi sonori sferraglianti e dal peso soffocante, frenati con maestria nella loro potente energia per non rischiare di apparire fine a se stessi.
Brani come "Still" ampliano il loro impatto giocando con questo senso di aspettativa e liberazione. Gli orizzonti ronzanti sono bilanciati con cura tra pulsazioni acuminate e la voce dominante della Ball. L'epico collage sonoro di "Blue Chalk" fonde tutti questi ingredienti portandoli sull'orlo dell'astrazione, pur mantenendo intatto l'intento originale.
Al contrario, la meditativa emotività di "Rivers", dell'opener "23" e la tintinnante atmosfera dream-pop di "Mirrors" mettono in piena mostra anche la capacità che la formazione di Dundalk possiede per melodia e struttura, puntando persino qualche macabra velleità dancefloor da proporre nei più caliginosi e claustrofobici club dai quali penetra solitamente dalle grate una fitta nebbia gelida ("Early" e "Seed").
Tuttavia, è il ringhio angolare impregnato di noise di "In Shade" che cattura la scena con carattere, rimuginando con il ponderoso fil rouge che attraversa l'intero album ed escogitando una strategia che possa far convergere contemporaneamente cacofonia e lucentezza.
Tutto è inserito al posto giusto e al momento opportuno, poiché i Just Mustard fondono una selva di vibrazioni dinamiche straordinariamente funzionali e stratificate, volte a modellare "Heart Under" come un mostro ondivago e minaccioso che, seppur composto da infiniti e scomodi elementi circuitanti, conferma ancora una volta la sacrosanta teoria che per produrre un disco a dir poco magistrale come questo non si devono mai analizzare le singole parti componenti, ma valutare sempre e solo il risultato come somma del tutto e nonostante l'oscurità straziante del loro tono sonoro, per i coraggiosi Just Mustard il futuro appare decisamente brillante.
01/06/2022