Con venti anni esatti di carriera alle spalle, Natalia Lafourcade è una delle più popolari cantautrici messicane emerse nel nuovo millennio e sicuramente la più applaudita dalla critica. La sua figura, prendendo le mosse dall’ambiente della musica alternativa, ha saputo allungare lo sguardo verso il mainstream, senza tuttavia mai rinunciare alla propria estrazione culturale. Ha piazzato tre album al numero 1 della classifica messicana (“Natalia Lafourcade” nel 2002, “Casa” nel 2005, “Hasta la raíz” nel 2015) e ammassato miliardi di ascolti in streaming.
Dal 2016 al 2021 la sua carriera ha dato tuttavia la sensazione di essersi arenata in una serie di dischi interlocutori, dedicati alla rilettura di classici della canzone messicana (i due volumi di “Musas”) e a duetti con altre star della musica iberoamericana (i due volumi di “Un canto por México”). Opere che sono state senza dubbio utili all’artista per un proprio percorso di maturazione, come denota la cura con cui sono state assemblate, ma che al contempo hanno rischiato di incrinarne la vena d’autrice, come da lei stessa ammesso.
“De todas las flores” è così il suo primo album in sette anni composto da materiale interamente inedito e lo si percepisce dall’ambizione che lo attraversa. È la musica meno confortevole che Lafourcade abbia mai registrato, un disco che sembra rifuggire la sua dimensione di star e che difatti è stato disertato dal grande pubblico, non racimolando che poche briciole rispetto ai predecessori, almeno in termini di mercato digitale.
Come molti classici del cantautorato, è stato assemblato da un’unica squadra. Lafourcade è autrice di tutti i brani, suona tutte le parti di chitarra acustica e dirige i lavori affiancata da Adan Jodorowsky (figlio di Alejandro e già produttore di León Larregui, icona del rock messicano). La accompagnano quattro musicisti d’eccezione: il polistrumentista enfant prodige Emiliano Dorantes, suo unico connazionale, che qui suona il piano, cura gli arrangiamenti e dirige gli archi; Marc Ribot, chitarrista jazz-rock dal piglio sperimentale, noto ai più per aver collaborato con Tom Waits e John Zorn; il contrabbassista Sebastian Steinberg, già membro dei newyorkese Soul Coughing; il batterista e percussionista francese Cyril Atef, uno dei più richiesti turnisti della propria scena, già al servizio di cantautori del calibro di -M- (bizzarro nome d’arte di Matthieu Chedid) e Bernard Lavilliers. A questi si aggiungono, a seconda dei brani, un quartetto d’archi e un trio fiatisti di estrazione jazz. La struttura portante del disco è stata registrata in un ranch presso Tornillo, in Texas, mentre le parti orchestrali e corali sono state aggiunte in seguito, in uno studio di Veracruz.
Sono dodici canzoni dai toni intimi, capaci di alternare delicatezza e caos, spesso lasciandoli fluire uno nell’altro gradualmente, grazie all’accortezza degli arrangiamenti di Dorantes, che, appena ventenne, mostra la maturità di un orchestratore navigato. La ricetta di base consiste in una mescolanza con dosi variabili di folk, jazz e musica da camera, con episodiche puntate nella musica regionale latinoamericana.
L’elevato tasso tecnico degli intarsi strumentali, pur sviluppati con oculatezza, risplende tramite la pulizia cristallina del suono, che ne sottolinea al meglio la disposizione. Diversi brani superano i sei minuti di durata, sviluppandosi al rallentatore e perdendosi fra pause d’atmosfera e divagazioni strumentali.
Fra i brani in cui folk contemporaneo e musica da camera si fondono al meglio “Vine solita” e “Pajarito colibrí”, con le loro lunghe introduzioni e gli arrangiamenti scarnificati, mentre la title track accelera il passo, pur muovendosi sul passo felpato di una batteria con le spazzole, alla ricerca forse di uno dei pochi agganci radiofonici della scaletta.
“María la curandera” si muove al passo di cumbia, disturbandolo con le distorsioni della chitarra di Ribot, mentre “Caminar bonito” si confronta col bolero cubano, accompagnandolo con squisite pennellate orchestrali, mentre è la samba il principale riferimento di “Mi manera de querer” e “Canta la arena”, uno sviluppo che risulta del resto naturale, considerato il carattere jazz dell’intera opera.
“Llévame vento” e “Muerte” contengono due fra i momenti più sperimentali, traversati da dissonanze di archi, fiati e chitarre elettriche, in una quasi in punta dei piedi, nell’altra manifeste e imponenti.
I testi sono costantemente cupi e riflettono un periodo di struggimento di Lafourcade, dovuto alla fine di una relazione. Non sono tuttavia necessariamente incentrati sull’amore, ma riescono a restituire fotografie di un dolore universale che trascende il sentimentalismo e punta dritto alle grandi questioni esistenziali, come palese sin dall’apertura, con “Vine solita”:
Sono venuta a questo mondo da sola,
da sola morirò,
quando cammino respiro soltanto,
percepisco con me i miei coraggiosi piedi.
In questo mondo non capisco la guerra,
la guerra dentro me e te.
Arriva la notte, spengo la luce e al buio
continuo a sognare di svegliarmi, di svegliarmi.
Anche se per il mondo sono invisibile,
sento la marea che si lancia agitata sulla mia pelle,
e al vento consegno tutti i miei dolori.
Se piango violentemente, sono un fiume fino all’alba,
in ogni giorno sto nascendo,
in ogni giorno sto partendo da me, da me.
Mi afferro alla mia vita,
mi afferro alla vita,
mi afferro alla vita prima di morire.
In uno dei momenti più ambiziosi, “María la Curandera”, Lafourcade riadatta un poema di María Sabina, poetessa e sciamana curatrice di etnia mazateca, fra le più importanti figure del folclore messicano del Novecento. Anche in questo caso, pur provenendo da un personaggio legato a tradizione antiche, i versi ruotano intorno alla gestione di un mal di vivere dal carattere universale:
Guarisci, figliola, dal dolore, con la nostra luce del sole,
e i raggi della luna.
Guarisci, figliola, dal dolore, con il suono del fiume,
la cascata e la schiuma.
Con l’ondeggiare del mare che va e viene, lascia che ti afferri,
con l’ondeggiare del mare che va e viene, lascia che ti ami.
Guarisci te stessa, ragazza mia, con le foglie di menta
e la menta piperita, metti l’amore nel tè.
Invece di zuccherare, bevi e guarda le stelle.
Guarisci, figliola, con i baci che ti porta il vento,
gli abbracci della pioggia.
Guarisci, ragazza mia, con l’amore per le cose più belle
e accendi il fuoco, libera i tuoi dolori,
che diventino polvere e nascano nuovi fiori.
Che diventino polvere, che diventino polvere tutti i dolori,
lascia che il fuoco li bruci, lascia che il fuoco li bruci e nascano nuovi fiori.
Guarisci, figliola, dal dolore, con il calore del sole
e il freddo della luna.
Addolcisci la mattina con l’aroma di lavanda, rosmarino, eucalipto
e che venga la calma.
Poni attenzione all’intuito, guarda il mondo intero
con l’occhio, quello che porti sulla fronte.
Guarisci, ragazza mia, con l’amore per le cose più belle
e ricorda sempre che tu sei la medicina.
Da segnalare anche “Muerte”, unico brano della scaletta in cui Lafourcade anziché cantare enuncia i versi come fosse la lettura di una poesia.
Ringrazio la morte per avermi insegnato a vivere,
per avermi invitato a decifrare bene la mia fortuna.
Prendendo la mia mano forte, riempiendola di vita,
è come mi cura dal male, perché mi aggrappa al presente.
Dopo essere morta nella mia guerra, oggi rinasco grata.
Ringrazio i fiori, il profumo del gelsomino
per avermi invitato nel giardino in cui si piangono i dolori.
Bevendo i liquori sacri della nostra terra,
il dolore è finalmente sepolto e mi do alla gioia.
Potrei non sapere chi sono, ma il non cadere mi spaventa,
potrei non sapere chi sono, ma il non cadere,
oh, questo sì che mi spaventa.
Morte.
Per aver guardato la morte,
oggi attraverso la vita,
con la fede e l’anima in fiamme.
Morte.
Per aver salutato la morte,
oggi apprezzo l’amore
che è nato in me, per sempre.
Palme, canneti, le spiagge di Veracruz
hanno dato forza alla luce che avevo perso,
mi sono trasformata in polvere di minerali e stelle,
e il cielo che ho scoperto oggi mi abbaglia di vita.
Ho ballato tanto grata
che a Dio ho offerto la mia morte,
ho ballato tanto grata,
che a Dio la mia morte
ho offerto.
Ringrazio la vita,
ringrazio la morte,
Lorenzo, vita mia, grido,
ringrazio la morte,
per avermi insegnato a vivere.
“De todas las flores” rimarrà probabilmente appannaggio dei completisti e degli appassionati di musica alternativa, ma rimane un atto di coraggio che poche stelle del calibro di Lafourcade hanno accettato di intraprendere. La sua veste, al contempo romantica e funerea, tragica e rilassata, pacata e densa di ricami, capace di sposare mille contraddizioni con i suoi tempi dilatati, è l’esatta antitesi all’epoca della fruizione ipercinetica dei media e dell’arte.
27/11/2022