In campo artistico il concetto di sopravvivenza presuppone talvolta il sistematico rovesciamento di aspettative e convenzioni. Col riconfezionare un anno dopo nel format di “studio album” quella che de facto è una raccolta di remix o, per citare il titolo, “reworks”, ossia rilavorazioni collaborative di brani selezionati da “Oxymore”, a sua volta anti-album fondato su una non-collaborazione (quella mancata col defunto Pierre Henry), Jean-Michel Jarre sembra voler documentare la propria influente persistenza nel panorama musicale contemporaneo, celebrando la valenza “collettivista” di quell’antilogia estetica contenuta nel termine “ossimoro” che sostanziava l’ambiguo quanto divisivo progetto dedicato/ispirato ai dettami della “musique concrete”.
Contravvenire al “less is more”, mantra caro alla pratica musicale di Jarre, con i “more works” di “Oxymoreworks”, corrisponderebbe in questo caso alla convalida di quel parossismo dell’antinomia che, a partire dalla pletorica esaltazione del “featuring” immortalata nel doppio “Electronica” di otto anni fa, appare come il peso specifico di un Jarre 3.0 sempre più orientato a mettere in discussione (senza rinnegare) la sua ultracinquantennale qualifica di compositore nel perseguire il ruolo di produttore e promoter del suono spaziale, di conferenziere nonché testimonial-guru dell’intelligenza artificiale, del metaverso e delle nuove tecnologie. Trasfigurazione “post-musicale” certificata anche dal recente e inedito lavoro di consulente offerto per dotare di suoni la nuova linea di macchine elettriche della Renault. Insieme al team francese dell’Ircam, Jarre si è infatti ritrovato a curare il sound design di vetture che, a causa della loro silente natura elettrica, non disporrebbero altrimenti di una voce distintiva in grado di renderle riconoscibili all’interno del paesaggio sonoro.
Allo stesso modo gli artisti convocati dall’“algoritmo Jarre” a rivisitare, anzi, “rilavorare” fianco a fianco le tracce di “Oxymore” hanno dovuto giustificare la loro compresenza all’interno di questo terzo capitolo apocrifo di “Electronica”, con il cercare di ricavare ciascuno un motivo melodico, un agglutinante ritmico o un personale gradiente sonoro dalla “machina machinalis” di un album disfonico, assemblato nell’assenza di frasi orecchiabili e di un’uniforme tema musicale.
Sotto le mani di Martin Gore, che in questa nuova silloge jarriana raccoglie idealmente il testimone dell’ex-Depeche Mode Vince Clarke coautore di “Automatic”, la ruvidità berlinese di “Brutalism” si converte in una imperiosa e densa divagazione techno-dark, mentre per il demiurgo della ambient Brian Eno l’impetuosità metaversale di “Epica” si sublima in una placida e ariosa trafilatura di voci sequenziate, servita sul sincopato trotto psichedelico della jungle.
Da par suo l’elusivo Deathpact restituisce il favore a Jarre che nel 2021 lo aveva onorato del primo remix della sua carriera per “Split Personality”, filtrando “Brutalism” in un cavernoso e monotono diorama dance-trance. La seconda declinazione di “Epica” porta la firma mestamente sognante di French 79, che incastella una sfavillante schiera di arpeggi rotanti intorno a un paio di note raminghe carpite dall’ultimo breakdown del brano originale. Con Adiescar Chase, giovane compositrice della serie Netflix “Heartstopper”, la giocosa levità di “Synthy Sisters” si rassoda in una neoclassica variazione dal cotè cinematico che spicca tra tutti i reworks per il meditato scrupolo compositivo con cui riarrangia i vocalizzi sintetici sopra la misurata melanconia di un piano e di un ambrato tappeto d’archi.
Più cursoria e svagata risulta invece la rilettura techno-ambient che la dj siberiana Nina Kraviz propone di “Sex In The Machine”, condita da un sommesso parlottio robotico che nelle intenzioni vorrebbe enfatizzare la cibernetica sensualità già evocata da Jarre. Ed è sempre dalla frenetica scena techno europea che provengono le torpide pulsazioni con le quali la francese Irene Dresel fodera “Zeitgeist”, diluendola in una lunga e fosca marcetta che poco o nulla aggiunge al tenebroso incalzare del brano sorgente.
Ma sarà forse per la qualità intraspecifica delle rispettive dimensioni sonore, acclarata d’altronde con il giubilatorio “Stardust” del primo volume di “Electronica” che l’“Epica Maxima” edificata da Armin Van Buuren sulle ribollenti spoglie della traccia eponima di Jarre riesce a guadagnarsi il proscenio della tracklist, controbilanciando con la sua diamantina carenatura trance la ridondante astrazione rumoristica propalata da NSDOS nel secondo remix di “Zeitgeist”. Riesumando così dalla stratigrafia acusmatica del pezzo un’elegiaca intuizione melodica non distante da quella che animava “Vintage”, uno dei pochi momenti ispirati di quel “Teo&Tea” prodotto da Jarre nell’epoca di crisi creativa prolusiva al ritorno di fiamma nel 2015, il dj olandese omaggia degnamente il maestro senza scadere nella piaggeria emulativa e, insieme a quasi tutte le altre guest star, fa in modo che l’intero progetto non finisca con l’essere soltanto l’ennesima compilation transpromozionale imposta da vincoli e scadenze contrattuali.
E per quanto l’idea di fare di “Oxymoreworks” un’estensione artisticamente “binaria” del binaurale “Oxymore” non sia sufficiente a sopperire all’assenza di un legante narrativo equivalente a quello escogitato venticinque anni prima per tenere insieme l’antologia di “Odyssey through O2” basata su “Oxygene 7-13”, l’album costituisce a suo modo un'ulteriore prova di come i binari sui quali Jarre ha ripreso a viaggiare a pieno regime abbiano, a dispetto delle migliaia di chilometri figurati e letterali già consumati, ancora altre e (si spera) più memorabili stazioni musicali da raggiungere.
11/11/2023