“Il musicista è come un monaco. Deve rimanere nel suo studio e lavorare senza posa ogni giorno per sperimentare costantemente, ascoltare, provare, e ricominciare da capo una composizione. I musicisti non hanno il tempo per essere rivoluzionari”. Ma al servizio di una rivoluzione che avrebbe cominciato davvero a fare “rumore” (teoreticamente e letteralmente) sul finire del ‘900, s’erano comunque posti sia Pierre Henry che il suo sodale Pierre Schaeffer quando nel 1949, con i dodici movimenti della loro “Sinfonia per un uomo solo” trasmessa dalla radio francese RTF, diedero prova di quella che nell’intervista rilasciata nel ‘97 per il documentario “Modulazioni: cinema per l’orecchio”, Henry definiva musica concreta in quanto strettamente “correlata al corpo umano, all’ambiente in cui vive, agli oggetti, alla natura, alle emozioni”. Interrotta la collaborazione con Schaeffer poco prima che nel ‘58 quest’ultimo fondasse il famigerato Groupe de Recherches Musicales, Henry sarebbe stato il primo ad aprire uno studio di registrazione indipendente in Francia, consacrando il resto della sua sessantennale carriera all’ascetica disciplina di orefice sonoro che, fino alla scomparsa nel 2017, lo vide intento a modulare l’onda tellurica di quella rivoluzione “audio-copernicana” in virtù della quale il fulcro della pratica musicale veniva spostato dalla scrittura degli spartiti alla manipolazione dei suoni trattati come “objet trouvè”. In realtà non del tutto solitario né monacale, il suo percorso fu invece costellato da diverse collaborazioni, da quelle con il compositore Michel Colombier e il coreografo Maurice Bejart per il balletto “Messe pour le temps presént” nel ‘67, con la rock band britannica Spooky Tooth per l’album “Ceremony” nel ‘69, fino a quella auspicata, preparata, sfumata e infine riscattata post-mortem come “suite-happening” con quell’ex-allievo del GRM che, dal ‘76 ad oggi, è stato capace d’infondere e raffinare lo spirito di quella “sinfonia di due uomini soli” nell’ossimoro artistico di musica composta per sconfinate masse solitarie.
Per Jean-Michel Jarre scegliere come titolo di un “gemellaggio postumo” una figura retorica basata sulla forza poetica della contraddizione di due termini rappresenta tanto l’occasione per ribadire la natura ancipite del suo stile musicale, da sempre anfibio tra avanguardia e classicismo, quanto l’ideale soluzione polisemica per conferire una sorta di finalismo circolare alla sua personale avventura creativa nell’allusione fonetica a quel caposaldo della musica elettronica dal quale, per addetti ai lavori e opinione pubblica, il suo nome rimane inscindibile alla stregua di un cognome. Tra “Oxygene” e “Oxymore” la trasmutazione delle due sillabe finali non racchiude infatti solo la durata “storica” dei 46 anni scanditi da 22 album e da centinaia di concerti presenziati da un numero ancor più vertiginoso di spettatori, ma anche e sopratutto quella immensurabile di un tempo psichico che Henry e Jarre hanno catturato e preservato nell’ambra intangibile di una dimensione metafonetica dove il neuma, la nota grafica, giunge a dissolversi e rinascere nell’astrazione concreta del noumeno sonoro, il suono in sé, puramente pensato.
Così “Oxymore” potrebbe essere letto (e ascoltato) anche come un vero e proprio “portmanteau”, la parola baule ideata da Lewis Carroll in “Attraverso lo specchio”, un neologismo validato dall’essere prodotto, contenitore e crogiolo di due parole, e qui per traslato di due concezioni creative che dialogano l’una con il riflesso dell’altra nel “trompe l’oeil” aurale dello spazio-tempo, dando sostanza e inverando la fisiologia espressiva ma sopratutto concettuale di questa sinfonia-omaggio fino a divenire, per l’appunto, sintesi ma ancor meglio “aufhebung” (per usare il lessico hegeliano), ossia superamento e conservazione in una forma sublimata delle “fono-visioni” di due ingegni affini seppur antitetici per accessibilità e seguito di pubblico.
Ossimorica dunque è la materia stessa della suite: una fibrillante mantecatura digitale eseguita dall’archichef Jarre nello Studio Innovation di Radio France con i campioni attinti da un archivio analogico di voci, ansiti, pigolii, spifferi, clicchettii, clangori, microrumori e spigolosi rintocchi metallici che Henry aveva collezionato in vista di quella che (al pari del duetto mancato con David Lynch) doveva costituire una delle collaborazioni incluse nel mastodontico progetto corale “Electronica”.
Ossimorica l’ambizione di svincolare del tutto la valenza estetica dell'esperienza sonora dal suo corollario visivo, pur essendo più che mai fondamenta e scrigno atmosferico di un “sandbox” estetico-scenografico incarnato dalla optical art “escheriana” della copertina e dalla città in VR di “Oxyville”, modellata nel grisaille fumettistico di un crossover 3D tra “Sin City” e quel “Futurama” la cui sigla di Christopher Tyng non a caso è una variazione della “Psyché rock” composta da Henry nel ‘67.
Ossimorica la composizione nell’essere fisicamente abitabile e pertanto artisticamente compiuta fintanto che venga fruita dai ventinove speaker di un impianto Dolby Atmos che tuttavia la maggioranza degli ascoltatori dotati solo di cuffie si troverà a delibare nell’approssimazione emulativa dell’audio binaurale. Espediente che (a differenza di quanto tentato nel 2004 con “Aero” dove il Dvd era stato mixato in funzione di un più abbordabile 5.1 casalingo) resta suo malgrado ancorato alle restrizioni della stereofonia di cui il progetto, enfatizzando la collimazione tra forma e contenuto, vorrebbe essere in primis confutazione e scardinamento. Ossimorica l’ambivalenza di un’opera il cui incorporeo flusso fono-avvolgente (come era accaduto anche per il precedente “Amazonia”) sussiste all’infuori di sé nella conversione al formato commerciale dell’album che all'ascoltatore è dato maneggiare nella sua metempsicosi oggettuale come cd e vinile, dotati di tracklist strutturata in tracce con durate e titoli.
“La musica concreta è connessa alla fotografia, al cinema, in minima parte alla letteratura e ancor meno alla musica, perché essa è già presente dentro di noi”, dichiarava Henry a puntualizzare che sua prerogativa e cifra identitaria consisteva nel perseguire l’autenticità emozionale del caso e del caos insiti nel “rumore”, nella “grana” della foto e della pellicola cinematografica. In tal senso, presentare “Oxymore” con sessioni d’ascolto nelle sale cinema, dopo l’anteprima tenuta a gennaio 2022 nell’oscurità risonante de la “Maison de la Radio” di Parigi, attesta la volontà di Jarre di riconoscere e celebrare apertamente il portato cinematico della lezione di Henry, elevando l’omaggio a “mise-en-scène” di una seduta “audio-medianica” in cui la trance allucinatoria viene sollecitata da fenomeni acusmatici, suoni iper-naturalistici che non presuppongono strumenti in grado di generarli e che in quanto tali necessitano solo di “medium” tecnologici (gli “speaker”) per manifestarsi nella sfera sensibile, animando le scene di film proiettati dietro palpebre chiuse. È il primato assoluto attribuito alle proprietà enteogeniche del suono immersivo a giustificare quindi il profilo anacoretico di un Jarre devotamente assorto sulla tavola ouija di un touchpad musicale in quelli che, d’ora in poi, a giudicare dall’anteprima di gennaio, abbandoneranno del tutto l’apparenza di concerti per assurgere a solenni “meta-djset”.
Proiezionista del proprio film assemblato con effetti sonori, musiche e rumori proprio come caldeggiato da Henry, sin dall’opening di “Agora”, dove la voce del decano si affaccia dal brulichio elementale di un metaverso oltremondano a guisa di maestro delle cerimonie (trovata introdotta in “Rendez-vous in space” del 2001 usando quella di Arthur C. Clarke e ripresa dai Daft Punk in “My Name Is Giorgio”), Jarre mette subito in chiaro che i successivi 47 minuti aggireranno e più spesso travalicheranno i confini conosciuti della musica “musicata”.
A rimbalzare, piroettare e svolazzare su palpitazioni tenebrose e discontinue campiture di tonalità sferrate con la mistica frenesia di un Pollock posseduto dal “daimon” ludico degli Art Of Noise e dei Matmos, le tracce sciabordano e rifluiscono una dopo (e dentro) l’altra, solidificandosi, liquefacendosi e compostandosi tra cremagliere rugginose e viscosi dedali di ritmi e climi dance, orchestral rock, drum and bass, industrial techno e trip-hop, in cui sgocciolature sub-melodiche s’infiltrano ed evaporano non appena si ha l’impressione che l’orecchio li abbia agguantati e addomesticati.
Insieme all’aspro “Brutalism”, scelto come singolo di lancio e oggetto di una prima serie di remix a firma Martin Gore e Deathpact, sono l’inquieta traccia eponima, il grintoso “Zeitgest” e il tempestoso “Epica” a stagliarsi con maggior nitore sopra lo sfrigolio incessante del maelstrom biomeccanico, grazie a una più sorvegliata disposizione di groove, linee di basso, arpeggi corpuscolari, progressioni e granulazioni armoniche che, guarniti dagli immancabili fonemi “zoolookiani”, consentono loro di rivendicare una più meditata autosufficienza musicale. Ed è forse in quell’angosciante espirazione da asfissia che rincalza la ritmica spasmodica di “Zeitgeist” a nascondersi “lo spirito dei tempi”, la chiave con cui interpretare un’epoca soffocata da pandemie, crisi climatiche, guerre d’informazione, operazioni speciali, sociopatia e avvisaglie di apocalissi nucleari. Ancor prima che nella virtualità di realtà artificiali, trovare riparo nel metaverso edenico della musica, in definitiva, può essere già di per sé un modo per affrancarsi dalla dispnea della contemporaneità e scampare all’embolia dell’anima. Un modo per trovare quella boccata d’aria in più custodita dentro le bombole segrete di un immaginario “foto-fonetico”. Il gene mancante di un Dna “metaversale” che l’ascoltatore potrà e dovrà scoprire, chiudendo gli occhi una volta indossate le cuffie per silenziare il frastuono ossimorico del mondo e respirare “More Oxy(gene)”.
22/10/2022