Registrare e documentare musiche, parole e suoni provenienti da tutto il mondo. Con questo obiettivo Moses Asch e Marian Distler hanno avviato nel 1948 la Folkways Records. Non solo canti e racconti popolari e di protesta, ma anche le voci della natura e del mondo antropizzato, incluso ciò che abitualmente viene sbrigativamente etichettato come mero rumore. Due terzi di secolo dopo lo Smithsonian Institution, che alla morte di Asch ne ha acquisito il catalogo composto da oltre duemila titoli, decide di offrire il poderoso archivio creato quale materia prima dalla quale estrarre un’opera originale, per celebrare il settantacinquesimo anniversario dalla fondazione di questa seminale attività di ricerca.
Chi meglio del duo formato da M.C. Schmidt e Drew Daniel poteva essere coinvolto in una simile operazione? In un arco temporale di oltre cinque lustri, i due Matmos hanno ampiamente dato saggio della loro peculiare capacità di utilizzare fonti inusuali, non di rado assolutamente bizzarre e marcatamente rimodulate, per dare vita a escursioni elettroniche governate da un chiaro concept e da un processo compositivo rigoroso. Ovviamente a essere utilizzati sono stati i capitoli non musicali prodotti dalla Folkways, le raccolte di registrazioni naturalistiche e scientifiche, scelta scontata per chi ha costruito il proprio marchio affidandosi tra l’altro alle risonanze di lavatrici, aragoste e strumenti chirurgici.
Nelle mani degli alchimisti sintetici di base a Baltimora i campioni estratti, manipolati e riconvertiti acquistano nuova linfa, arricchendosi di un senso che va oltre la mera documentazione. La decostruzione messa in atto porta l’evidenza del suono e del processo Matmos, cristallizzandosi in una serie di collage vorticosi le cui fonti, chiare o trasfigurate fino a essere irriconoscibili, si intersecano con ritmiche frammentarie degne dei labirinti autechriani e modulazioni elettroniche oblique, generando l’abituale caos sistematico mai privo di musicalità.
Dal ronzio frenetico delle ali delle vespe scaturisce una progressione incalzante che mozza il fiato (“Mud-Dauber Wasp”), dal cut’n’past di diversi esperimenti vocali ha origine una tirata dancehall in cassa dritta (“Why?”).
Appare tutto fin troppo lineare e meno straniante del solito, anche quando il lavoro da “Lend Me Your Ears” in poi – soprattutto negli oltre tredici minuti della title track - si apre a combinazioni atmosferiche prive di pulsazioni, che nella giustapposizione di riverberi, voci e pause risultano accostabili alle prime esplorazioni della musique concrète. Innegabile, però, rimane l’efficacia di un modus operandi consolidato, che non smette di produrre se non eccellenza, comunque dischi di ottima fattura.
Per rimanere ancora stupiti attendiamo il capitolo quindici della saga.
19/11/2023