Do As Thy Wilt
La leggenda narra che, al compimento del dodicesimo anno di età, il padre di Harry Everett Smith gli regalò un assortimento completo di utensili da fabbro. "Adesso potrai ricavare l'oro dal piombo", gli disse. E il figlio lo fece. O almeno, provò a fare qualcosa di molto simile.
In fondo, che cos'è l'"Anthology Of American Folk Music" di Harry Smith se non un manufatto alchemico, un viaggio alla ricerca della pietra filosofale? Guida imprescindibile alla scoperta delle radici della musica folk americana, certo, ma al tempo stesso trattato iniziatico di cosmologia musicale.
Del resto, l'albero genealogico della famiglia Smith non mente: il nonno affiliato alla massoneria, i genitori adepti di teosofia ed esoterismo. "Una volta, nella soffitta di casa nostra, scoprii tanti di quei documenti illustrati con mani che avevano occhi, documenti massonici di vario genere che appartenevano a mio nonno. Mio padre disse che non avrei dovuto vederli e li bruciò senza indugio. Sono queste le origini del mio interesse per la metafisica".
Etnomusicologo, cineasta, pittore, mistico, collezionista compulsivo: a cento anni dalla nascita, la figura eclettica (ed eccentrica) di Harry Smith resta più indecifrabile che mai. Per Rani Singh, storica direttrice degli Harry Smith Archives, "non potremo mai separare completamente la verità dal mito, ma possiamo essere certi che sin dall'infanzia gli erano stati instillati un valore per la natura e una sintesi alchemica delle arti e delle scienze che sfociarono in una combinazione di musica, antropologia, linguistica, etnologia, cinema, occultismo, disegno e arti plastiche".
Il poeta americano Lionel Ziprin ricorda così la prima volta in cui Smith, non ancora trentenne, si presentò davanti alla porta del suo appartamento a New York: "Sembrava l'angelo della morte. Quando lo vidi feci un salto di due metri. Sembrava più vecchio di quanto non lo sarebbe mai stato in seguito, aveva certe occhiaie nere sotto gli occhi, portava con sé un mazzo di penne indiane, un bastone e una foca, non so se fosse eschimese o cos'altro, ma era una statua di una foca bianca di marmo che si intersecava con un sigillo magico circolare. Buttò il bastone nella stanza facendomi sussultare e disse: Mi chiamo Harry Smith".
Smith sosteneva di essere il figlio segreto di Aleister Crowley, la "Grande Bestia", l'occultista del suo tempo per eccellenza. Era solo una delle sue tante invenzioni, ma non è un caso che, nel libretto che accompagna l'"Anthology", faccia bella mostra di sé la celebre Legge di Thelema coniata da Crowley: "Fai ciò che vuoi sarà l'unica legge". A un certo punto, Smith si fece persino consacrare vescovo dell'Ecclesia Gnostica Catholica, la branca ecclesiastica dell'Ordo Templi Orientis di Crowley. Impossibile però ridurlo a una faccia soltanto: "Uno studioso ermetico, un professionista eccelso di magia, un maestro del tempio, un bugiardo, una canaglia, un truffatore, uno spendaccione, un furfante, un dissipatore, uno spezzacuori", lo definiva uno che lo ha conosciuto da vicino, il biologo Harvey Bialy. Difficile immaginare un'incarnazione migliore dell'archetipo del trickster, l'imbroglione della mitologia, il "briccone divino" junghiano.
Egocentrico, irascibile, squattrinato, caotico. Genio contraddittorio e sfuggente. Fernanda Pivano venne trascinata a conoscerlo da Allen Ginsberg in compagnia di Leonard Cohen, quando Smith viveva in una stanza del Chelsea Hotel. "Ginsberg aveva per lui una vera e propria infatuazione: pensava che fosse un grandissimo artista, un eccezionale scopritore di arti sconosciute, un magnifico disegnatore di forme geometriche, un sofisticato inventore di ritmi jazz, un erudito conoscitore degli indiani d'America". In realtà, però, a colpirlo fu soprattutto la sua arroganza: "La sua insistenza a chiedermi soldi era un crescente fastidio, il suo perentorio atteggiamento di inventore di forme astratte mi suscitava con tenerezza antichi ricordi dei miei dolci, umili, illustri amici di giovinezza".
Anni dopo, quando Bob Dylan andò una notte da Ginsberg per fargli ascoltare in anteprima i nastri di "Empire Burlesque", dalla stanza accanto sbucò fuori un vecchio scorbutico mezzo addormentato, intimando ai due di smetterla di fare rumore e di lasciarlo dormire in pace. Era sempre lui, Harry Smith, che Ginsberg si era preso in casa per permettergli di avere almeno un tetto sulla testa. Ma anche se si fossero messi a parlare con lui di musica, quella notte, probabilmente Smith li avrebbe liquidati con una scrollata di spalle: per gente come Dylan e Ginsberg, l'"Anthology" era il testo sacro della religione del folklore; per Smith, solo un tassello della sua indagine sull'armonia segreta dell'universo.
Musica Mundana
Sulla copertina originale dell'"Anthology Of American Folk Music" c'è l’immagine di uno strano strumento musicale. È una lunga cassa di risonanza con una sola corda, intorno a cui si intersecano una serie di circonferenze. Viene dalle pagine di un trattato del Seicento, scritto dal filosofo ermetico inglese Robert Fludd ("Utriusque cosmi historia"), e rappresenta il monocordo celeste: uno strumento accordato direttamente dalla mano di Dio, che sbuca dall'alto tra le nuvole.
Si dice che l'invenzione del monocordo risalga addirittura a Pitagora e ai suoi studi sui rapporti tra musica e matematica. Non la matematica profana dei moderni, ma la matematica come scienza sacra. In quella corda tesa tra cielo e terra, i filosofi vedevano la grande catena dell'essere, il modello dell'ordine del mondo secondo i diversi livelli della creazione, dalla dimensione empirea fino a quella elementale (fuoco, aria, acqua e terra). Ogni livello era correlato agli altri secondo uno schema di proporzioni musicali: un equilibrio universale basato sulla musica delle sfere celesti, "l'armonia che temperi e discerni" del Paradiso dantesco.
Musica mundana, la definiva Fludd, riprendendo le categorie elaborate da Severino Boezio nella sua teoria musicale. E proprio a quell'armonia segreta voleva riferirsi anche Harry Smith: nell'"Anthology", ancora prima del motto di Crowley, compare una citazione di Fludd legata ai rapporti musicali tra gli elementi ("Nella musica elementare la relazione della terra con la sfera dell'acqua è 4 a 3, così come ci sono nella terra quattro quarti di frigidità contro tre di acqua"). Quegli stessi elementi a cui si rifanno anche i colori dei tre volumi della collezione: il blu dell'acqua per il primo ("Ballads"), il rosso del fuoco per il secondo ("Social Music"), il verde dell'aria per il terzo ("Songs").
Non è mai stata tanto la filologia musicale ad appassionare Smith, insomma, quanto la relazione tra la musica e il mistero della realtà, tra l'arpeggio di un banjo e l'armonia delle sfere."Come in alto, così in basso", recita uno dei principi cardine dell'ermetismo: il microcosmo individuale rimanda sempre al macrocosmo universale. "L'uomo microcosmo è collocato in un universo in cui le parti, il basso e l'alto, cospirano tra di loro a sua insaputa", spiega lo storico delle religioni Ioan Petru Culianu. "Non appena avrà afferrato la struttura di tale cospirazione, le corrispondenze tra l'universo visibile e il suo prototipo invisibile, potrà servirsene allo scopo di captare le presenze sconosciute in attesa sulla soglia tra i due mondi".
È questa trama di corrispondenze a legare insieme, nell'"Anthology Of American Folk Music", la tradizione folk e quella mistica, alla ricerca di una soglia sconosciuta. Come ha scritto Greil Marcus, "era come se Pitagora, Fludd e tipi come Jilson Setters, Ramblin' Thomas, gli Alabama Sacred Harp Singers, Charlie Poole e i North Carolina Ramblers e perfino lo stesso Smith frequentassero gli stessi dei". Intorno a quei tre volumi di doppi Lp, "l'intera bizzarra confezione rese strano ciò che era familiare, confuse ciò che non era stato mai saputo con ciò che si era dimenticato e ciò che era dimenticato con una memoria collettiva che ingannava la mente coscienziosa di ogni singolo ascoltatore". Forse è proprio grazie a questo che la fascinazione per questa raccolta è riuscita a spingersi ben oltre la cerchia degli etnomusicologi. "L'"Anthology" era un mistero, un'insistenza che, nonostante ogni assicurazione del contrario, l'America era un mistero. Nonostante questo, l'"Anthology" fu camuffata da libro di testo. Era un documento occulto mascherato da trattato accademico sugli avvicendamenti stilistici all’interno di una musicologia arcaica".Moe Asch, il leggendario fondatore della Folkways Records (l'etichetta discografica che nel 1952 diede per prima alle stampe l'"Anthology") racconta così il suo incontro con Smith: "Venne da me con questa enorme collezione di dischi. Aveva un bisogno disperato di denaro, come del resto era sempre stato in tutta la sua vita. Mi disse che voleva comporre un libro con tutte le annotazioni, e voleva farlo personalmente, e voleva essere certo che venisse pubblicato. Naturalmente ero molto interessato a questo progetto. Quindi fece le note, le dattilografò, fece il montaggio, fece tutto il lavoro, discutemmo insieme lo schema, ma fu lui a comporre il tutto".
All'interno della sua sterminata collezione di 78 giri dell'anteguerra (blues, country, hillbilly, gospel, attraverso un arco di tempo compreso tra il 1926 e il 1933), Smith non ha selezionato necessariamente le registrazioni migliori o storicamente più significative, ma quelle più dense di suggestioni rispetto alla sua personalissima visione, più adatte a riecheggiare le une nelle altre. "L'"Anthology Of American Folk Music" è probabilmente il più significativo esempio di come le preferenze di un particolare collezionista possano guidare (se non dettare) un canone storico", osserva Amanda Petrusich sul New Yorker. Una sorta di Wunderkammer del folklore americano, che Smith ha intessuto non solo di dati e di informazioni, ma anche (e soprattutto) di accostamenti arbitrari, libere sinossi e risvolti esoterici.
Per usare le parole di Alessandro Carrera, alla tradizione folk si può guardare con gli occhi dello scienziato, come nel caso delle registrazioni sul campo di Alan Lomax, oppure con quelli del cercatore di tesori: Harry Smith era senza dubbio un cercatore di tesori. "Se la folk music è studiata nelle università e archiviata nelle biblioteche, lo dobbiamo a ricercatori intransigenti come Alan Lomax. Ma se ragazzi sprovveduti in fatto di musicologia e di ricerche sul campo hanno mutato il volto della popular music dopo aver ascoltato l'"Anthology", lo dobbiamo a geni irregolari, incompresi e incomprensibili come Harry Smith".
Tre brani dell'"Anthology" (uno per ogni volume) possono diventare allora il modo per giocare a evocare le fasi della metamorfosi della materia nel processo alchemico. Per rendere omaggio allo spirito da trickster di Smith, e per provare a trasformare ancora una volta il piombo in oro tramite le note gracchianti di quei vecchi dischi.
Nigredo
"WIFE AND MOTHER FOLLOWS CARPENTER TO SEA; MOURNS BABE AS SHIP GOES DOWN".
Lo stile è quello di un titolo di cronaca immaginario, come in tutte le introduzioni ai brani dell'"Anthology": Smith presenta così "The House Carpenter", episodio numero 3 della raccolta (una collocazione tutt'altro che casuale, vista la sua ossessione per il significato simbolico dei numeri). La voce di Clarence Ashley ha un gelido fatalismo, il banjo la accompagna nervoso. All'apparenza, si direbbe solo una canzone di ammonimento contro l'adulterio. Ma subito Smith aggiunge: "La tematica soprannaturale delle versioni più antiche è quasi completamente scomparsa in America".
Bisogna risalire indietro, allora, bisogna tornare fino alle leggendarie "Child Ballads", le ballate tradizionali inglesi e scozzesi raccolte da Francis James Child nell'Ottocento. Un tempo "The House Carpenter" si intitolava "The Daemon Lover", e a portare via con sé la protagonista non era un semplice amante, ma un amante infernale, un demone, un revenant. Dall'altra parte dell'Oceano, come spiega Alessandro Carrera, si è provato a dimenticare la vera natura della storia: "Creduto e temuto, il diavolo non doveva avere spazio nelle manifestazioni del culto e della cultura. Le ballate e le leggende in cui Satana compariva vennero espurgate, censurate e riadattate, e il taglio con la tradizione che le aveva nutrite le rese ancora più arcane e incomprensibili di quanto già non fossero". Eppure, non è stato possibile cancellare del tutto quell'ombra: "Di soprannaturale, nella versione riportata nell'"Anthology" di Harry Smith, è rimasta la voce di Clarence Ashley. Ashley non ha bisogno di nominare esseri oltreumani. La posa immobile della sua voce, scolpita in una roccia che non è di questo pianeta, riassume la categoria del weird, dell'inquietante americano".
Lo spirito venuto dall'oltretomba, che conduce alla morte la sua amante in "House Carpenter", è il traghettatore più indicato per condurre la prima fase del processo alchemico, la nigredo, l'opera al nero: la materia si disgrega, si riduce al suo stato primordiale, ritorna al caos. Morire per poter rinascere secondo una nuova forma. "They sprung a leak in the bottom of the ship/ And they sunk for to rise no more".
Albedo
Dopo la morte, la resurrezione. Dopo la disgregazione, la ricomposizione. "Solve et coagula", secondo la grande legge alchemica. L'albedo è la fase della purificazione, della rinascita. La chiamata a una nuova vita, come quella che vibra nella voce del Reverendo J.M. Gates: "Must Be Born Again". Siamo all'inizio del secondo Lp del secondo volume dell'"Anthology", quello dedicato alla dimensione comunitaria del folklore. Smith annota che gli inni come questo, "in cui il predicatore canta una frase, spesso tratta dalla Bibbia, e il coro risponde con la stessa frase, cantando una sillaba per ogni nota di certe melodie molto lente, sono considerati una delle più antiche forme di canto religioso cristiano in questo paese". La registrazione originale del brano cominciava con un fiammeggiante sermone del predicatore della Georgia, ispirato al dialogo evangelico tra Gesù e Nicodemo ("Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?"). Smith ha inserito nell'"Anthology" solo la parte finale, quella in cui le parole, lentamente, si trasformano in canto. E nel fervore del call and response diventano una lingua indecifrabile, sconosciuta, ultramondana.
"Spaventoso e implacabile", così Greil Marcus definisce il tuonare del Reverendo. "La sua voce è profonda, severa e irritata per la debolezza dello spirito e della carne; irritata per la stessa natura umana". Sentire ancora riecheggiare le sue parole, a quasi un secolo di distanza, sembra cancellare per un istante i vincoli del tempo e dello spazio, trasportandoci in mezzo ai fedeli della sua congregazione assetati dell'annuncio di una nuova vita. "Prima della registrazione (o annotazione musicale), anche le forme più antiche di musica erano contemporanee, oppure non esistevano affatto", osserva Erik Davies nei suoi scritti sull'esoterismo moderno. In questo senso, l'"Anthology" rappresenta un esempio del "residuo di quell'aura uditiva, del momento in cui la riproduzione tecnologica e la forma di bene di consumo aveva appena iniziato a catturare e riconfigurare irreparabilmente l'evanescente flusso della memoria musicale".
Rubedo
"L'albedo è, in un certo qual modo, l'alba", scriveva Carl Gustav Jung, "ma soltanto la rubedo è il sorgere del sole". Il rosso dell'ultima fase alchemica è il colore del fuoco, quello da cui rinasce la fenice. Il segno della trasformazione, della ricomposizione degli opposti. Nel terzo volume dell'"Anthology", c'è un brano che rappresenta l'idea di metamorfosi nel più visionario dei modi: si intitola "I Wish I Was A Mole In The Ground" e a cantarlo è Bascom Lamar Lunsford, un avvocato della North Carolina appassionato di musica folk. Un brano fatto di desideri che, per citare Smith, suonano "piuttosto surrealistici nel loro simbolismo". Parla di diventare una talpa, oppure una lucertola, di bere sangue e di far crollare montagne. Come ha scritto Grayson Haver Currin su Pitchfork, "queste immagini incongrue sono un'eredità della tradizione orale locale, ma prese nel loro insieme, specialmente sul banjo caricato a molla di Lunsford, danno forma a un mistero senza fine. Cosa vuole che facciamo Lunsford con queste vignette deformate? Che combattiamo il potere? Che ci rilassiamo e ci godiamo la vita? Che rinunciamo del tutto alla vita? Ecco un indovinello che non ha una risposta giusta".
"Quello che vuole il cantante è insieme evidente e incomprensibile", riflette Greil Marcus. "Vuole liberarsi della sua vita e mutarsi in un animale insignificante e spregevole. Non vuole vedere né essere visto. Vuole distruggere il mondo e sopravvivergli. Ecco cosa vuole. L'esecuzione è pacata e uniforme, e la pacatezza ti prende: puoi ascoltare e puoi vedere cosa stai ascoltando. Puoi lasciarti andare e immaginare cosa sarebbe volere ciò che vuole il cantante". Ciò che vuole è tutto e il contrario di tutto. È la sublimazione delle contraddizioni, la liberazione da ogni alternativa binaria (corpo e anima, luce e tenebre), verso una sintesi apparentemente impossibile.
Magnum Opus
Che cosa ha tratto Harry Smith dalla fornace alchemica della musica folk, dall'esoterico Atanor della sua antologia?
È persino scontato ricordare come l'"Anthology" sia stata alla base del folk revival degli anni Sessanta: "l'"Anthology" era la nostra Bibbia", ha proclamato il songwriter newyorkese Dave Van Ronk. "Conoscevamo ogni parola di tutte le canzoni, comprese quelle che odiavamo". Ma la sua influenza non ha smesso di riverberarsi nel corso del tempo, fino ad arrivare al presente.
Un ruolo fondamentale lo ha avuto la ristampa su cd nel 1997 da parte della Smithsonian Folkways (come è stata ribattezzata l'etichetta discografica di Moe Asch dopo l'acquisizione da parte della Smithsonian Institution negli anni Ottanta). Prima di allora, come racconta Amanda Petrusich, l'unico modo per ascoltare la leggendaria raccolta di Harry Smith era "spedire un assegno all'ufficio della Folkways e richiedere che un archivista la trasferisse su cd o su cassetta. Oppure si poteva tentare di dare la caccia agli Lp originali nei negozi di dischi usati o nei mercatini delle pulci. La rarità di quella raccolta sembrava in qualche modo congrua rispetto alla sua sedicente mitologia. Era qualcosa di talismanico; dovevi darti da fare prima di poterla ascoltare. Quando finalmente ho messo le mani su una copia, alla fine degli anni Novanta, ho scoperto che ascoltarla era un'esperienza metafisica, nella misura in cui sembrava piegare le regole dello spazio e del tempo".
Da lì in poi, tributi e appendici non sono più mancati: nel 2000, la Revenant Records ha pubblicato il quarto volume incompiuto dell'"Anthology", intitolato "Labor Songs" e dedicato all'elemento della terra; nel 2006, il progetto collettivo "The Harry Smith Project" ha aggiornato l'eredità dell'"Anthology" alla generazione dei vari Wilco, Beck e Beth Orton; nel 2020, grazie a un'altra etichetta specializzata nella storia del folk americano, la Dust-To-Digital, è arrivato un cofanetto intitolato "The Harry Smith B-Sides", contenente i lati B dei 78 giri utilizzati da Smith per la compilazione della sua raccolta. E nel febbraio del 2023, Pitchfork ha dato all'"Anthology" un 10 in pagella nella recensione per la sua serie di retrospettive.
La fortuna della camera delle meraviglie di Harry Smith sta probabilmente nel fatto di essere riuscita a tracciare, all'interno della tradizione musicale americana, un vero e proprio canone: il canone del weird. "The Old, Weird America", recitava non a caso il titolo del celebre saggio di Greil Marcus. Perché il weird, per riprendere l'ormai classica definizione di Mark Fisher, è qualcosa che ha "a che vedere con l'attrazione per l'esterno, per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell'esperienza comune": "chiama in causa un senso di non-correttezza: un'entità o un oggetto weird è talmente inusuale da generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui. Eppure, se l'entità oppure l'oggetto è effettivamente qui, allora le categorie utilizzate finora per dare senso al mondo non possono essere valide. La cosa weird non è sbagliata, dopotutto: dovranno per forza essere inadeguate le nostre concezioni".
Le canzoni folk dell'"Anthology" hanno questo effetto, questa perturbante capacità di suggestione. Sono canzoni in cui, come diceva Bob Dylan, le rose escono dai cervelli della gente e gli amanti si rivelano essere oche e cigni pronti a trasformarsi in angeli. Cose che non dovrebbero esistere, che ci costringono a mettere in discussione le nostre categorie ordinarie. "La musica folk è l'unica in cui non c'è niente di semplice. Non è mai stata semplice. È weird, è piena di leggende, di miti, di Bibbia e di fantasmi".
"Sono felice di poter dire che i miei sogni sono diventati realtà. Ho visto l'America cambiare attraverso la musica", ha dichiarato Smith alla cerimonia dei Grammy del 1991, quando gli è stato conferito il "Chairman's Merit Award for Lifetime Achievement" per il suo contributo alla musica folk americana. Eppure, se gli si chiedeva da dove venisse il suo interesse per la musica folk, rispondeva che la musica non gli interessava in sé, ma solo in relazione a qualcos'altro. "Non saprei che cosa. In un certo senso ha a che fare con il desiderio di comunicare, con la collezione di oggetti". Raccogliere quelle registrazioni è stato solo uno dei modi attraverso cui Smith, come uno sciamano in bilico tra due regni, ha cercato di aprire un portale verso l'ineffabile, verso la dimensione al di là della percezione comune.
Nel corso della sua vita, Smith ha collezionato di tutto: uova di Pasqua ucraine, coperte a patchwork dei Seminole, aeroplanini di carta, figure fatte con la corda, registrazioni dei rumori più disparati. Salvo poi perdere praticamente ogni cosa, durante le peregrinazioni di un'esistenza sempre sradicata. Era ossessionato dalla catalogazione, dalla ricerca degli schemi ricorrenti, delle relazioni nascoste tra le cose. "Tutti i miei progetti", diceva, "non sono altro che tentativi di costruire una serie di oggetti che consentano di operare una sorta di generalizzazione". Una mappa segreta dell'essenza del mondo.
Il filmmaker Henry Jones ricorda che Smith definiva questa sua ossessione "elenco categorico per sintesi ermetica": "Era come un mago chiuso in una torre che tentava di tramutare all'infinito il piombo in oro, e quel processo era importante quanto il risultato stesso. Insisteva sul fatto che gli elementi potessero trovare un'interazione casuale tra loro, fino al punto in cui potevano diventare arte". "Ricordo che mi disse una cosa in particolare, che ciò che conta della realtà è l'interazione degli oggetti e ciò che rende le cose reali è il fatto che siano state ordinate nella posizione presente. In altre parole, le cose sono ordinate nello stato presente e questo è ciò che fa la realtà. La realtà è fondata sulla collocazione degli oggetti".
Nonostante tutto, però, dopo la sua miriade di tentativi di trovare un ordine misterioso nelle cose, è proprio alla musica, al canto, che Smith è tornato negli ultimi istanti della sua esistenza terrena. Accanto a lui c'era la poetessa e scrittrice Paola Igliori, probabilmente la sua migliore biografa. "Lo accarezzai sulla fronte e dissi che non sapevo cosa fare. Iniziò a tossire sempre di più e poi gli uscì questo canto, potente. In un primo momento non afferrai le parole, poi capii che diceva: 'Sto morendo, sto morendo, sto morendo'. Era così possente, come un incredibile canto antico. Poi si accasciò, e capii che il suo spirito aveva lasciato il corpo". Correva l'anno 1991. Ma, per Harry Everett Smith, era solo un'altra tappa del suo lungo viaggio.
Harry Smith Archives
Bibliografia
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