Bob Dylan - La voce del tempo immemorabile

Bob Dylan, ovvero "l'erede designato dello spirito della terra". Parola di Alessandro Carrera, docente di Letteratura italiana alla University of Houston e da anni tra i più autorevoli esegeti dylaniani in Italia. Autore della traduzione dell'autobiografia di Dylan, "Chronicles", oltre che del monumentale corpus poetico "Lyrics 1962-2001", Carrera ha appena pubblicato una nuova edizione del suo saggio "La voce di Bob Dylan", vero e proprio affresco del rapporto tra Dylan e la cultura americana. Nessuno meglio di lui potrebbe fare da guida attraverso il lungo (e sempre imprevedibile) percorso dylaniano. Un viaggio che affonda le sue radici nell'essenza della "musica tradizionale", come Dylan stesso l'ha definita: la lingua di quella sorta di paradiso perduto che intesse l'universo mitico della tradizione folk. Perché, come scrive Carrera, "se molti possono scendere all'inferno, il compito più difficile per un poeta, il più necessario, è la descrizione del paradiso".

Ne "La voce di Bob Dylan", per rappresentare il rapporto tra Dylan e la tradizione folk, lei ha utilizzato la categoria di "poesia del tempo immemorabile" (prendendo spunto dal titolo dell'album "Time Out Of Mind"). Dylan stesso, negli ultimi anni, sembra aver voluto sintetizzare emblematicamente questa relazione, affermando in "I Feel A Change Comin' On" di avere "il sangue della terra nella voce". Vista la profondità di immedesimazione nel "tempo immemorabile" perseguita da Dylan nell'arco di tutta la propria carriera, si potrebbe dire che la voce di Dylan, ormai, è in realtà essa stessa il sangue della terra?
Eviterei connotazioni biologistiche (parole come "sangue" e "terra" evocano troppi fantasmi, forse più in italiano che in inglese...). Dylan presenta l'affermazione in un contesto che mi sembra ironico, facendo tra l'altro rimare "voice" con "Joyce" ("sto leggendo James Joyce e qualcuno mi dice che ho il sangue della terra nella voce"). Non sta dicendo "io non sono Joyce", perché questa sarebbe un'ovvietà, bensì "sono terra-terra, cercatemi dove sta la terra, il suolo dal quale nasce quel fiume ineusaribile che è la canzone americana". Un giorno o l'altro verrà compilato un atlante delle voci di Bob Dylan, degli infiniti rivoli che sono venuti a costituire la sua opera, e allora si potrà vedere che il sangue, l'acqua e la pioggia sono tutte metafore di un'opera essenzialmente "liquida", che scorre dovunque e dovunque si può raccogliere, senza gerarchie né pianificazione.

Ancora oggi, l'annoso equivoco del Dylan "cantante di protesta" stenta a morire nella vulgata comune. Soprattutto alle nostre latitudini, basta che in una canzone venga utilizzata la parola "proletariato" (come accaduto negli ultimi anni in uno dei brani di "Modern Times", "Workingman's Blues #2") per far gridare al supposto ritorno di Dylan alla politica... Qual è, a suo giudizio, la ragione del permanere così coriaceo di questa etichetta?
Se Dylan non avesse scritto le canzoni che ha scritto agli inizi degli anni Sessanta, e che all'interno del genere "canzone di protesta" sono rimaste insuperate, nessuno avrebbe nostalgia di quel periodo. L'immagine eroica che ha colpito l'immaginazione di milioni era quella del giovane, solo con la sua chitarra, che si prende l'autorità di dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Dal momento in cui Dylan si presenta in scena con un gruppo entra nella dimensione dell'Arte, ma perde quella del Bardo, che per definizione è solo. Per carità, Dylan ha dimostrato grande saggezza artistica nel lasciare la canzone di protesta prima che diventasse addomesticata, o comunque insufficiente di fronte alla complessità dei tempi (che cambiavano davvero, e molto in fretta), e non c'è da rimpiangere che non abbia scritto dieci "Blowin' In The Wind" o venti "The Times They Are A-Changin'", che non gli sarebbero venute altrettanto bene e sarebbero suonate false o noiose. Dylan peraltro non era politico neanche quando scriveva canzoni di protesta, non aveva né preparazione né coscienza politica, e il suo discorso era etico, non politico. Ma era anche un'antenna che captava quello che doveva essere captato, un sismografo vivente. A un artista non si può chiedere di più, e non perché l'artista non abbia gli stessi doveri di qualunque cittadino, ma perché come artista il suo compito non è solo di constatare e denunciare ciò che non va, ma anche di immaginare scenari, relazioni, prospettive che ancora non esistono. E questo Dylan l'ha fatto più nel suo periodo elettrico, e in quelli successivi, che in quello del cantante di protesta.

Un'altra vecchia diatriba, che non manca di tornare puntualmente alla ribalta ad ogni candidatura al premio Nobel per la letteratura, è quella del rapporto tra Dylan e la poesia. Una discussione in cui il vero equivoco sembra riconducibile al significato stesso di poesia...
Non avrei niente in contrario a vedere il premio Nobel assegnato a Dylan, ma perché mai lo dovrebbe ricevere? Se esistesse un premio Nobel per il gesto, per la voce, per la presenza scenica, per la fusione di voce, testo e musica, per l'arte della performance insomma, allora benvenuti Fo e Dylan, o magari anche Caetano Veloso, ma la letteratura è un'altra cosa. Non perché sia di per sé superiore alla canzone, intendiamoci bene. Ci sono parecchi premi Nobel il cui nome lo dimentichiamo subito, mentre di Dylan non ci dimenticheremo, ma quello che Dylan fa non è letteratura. Assegnargli il premio Nobel per la letteratura negherebbe quella che è la sua caratteristica principale e assolutamente unica, cioè la sua profonda oralità, il fatto che tutto ciò che Dylan fa è una voce, viene dalla voce e ritorna alla voce. Dylan canta sempre, anche quando parla, risponde alle interviste, presenta canzoni nel suo programma alla radio o scrive la sua autobiografia. Un premio alla letteratura lo ridurrebbe a essere un poeta neanche tanto meglio di altri poeti, mettendo in ombra quello che è il suo vero contributo, di avere creato un'arte che spesso si fonda su una vera e propria rivolta contro la scrittura (avendolo tradotto pressoché tutto, penso di poterlo dire).

Alessandro CarreraLa critica musicale tende a porre gli album della cosiddetta "trilogia elettrica" al vertice della discografia dylaniana. A suo avviso, è quella l'ultima fase in cui Dylan ha partecipato in qualche misura allo zeitgeist musicale del proprio tempo? Che cosa pensa dell'affermazione di Allen Ginsberg secondo cui la "svolta elettrica" sarebbe consistita in primis nella sfida di "vedere se la grande arte può essere realizzata per mezzo di un jukebox"?
Senz'altro Dylan è riuscito a recuperare lo spirito dei tempi con l'ultima trilogia, o quadrilogia che dir si voglia. Molti considerano "Time Out Of Mind", "Love And Theft" e "Modern Times" una trilogia, anche se, dal punto di vista del sound, probabilmente "Times Out Of Mind" sta per conto suo per via della produzione di Daniel Lanois, mentre la vera trilogia se mai è costituita da "Love And Theft", "Modern Times" e "Together Through Life" (che non è un disco così minore come sembra). Credo comunque che Dylan abbia saputo incidere nel tempo presente soprattutto con "Time Out Of Mind" e "Love And Theft", più varie canzoni dai dischi successivi (incluso "Tell Tale Signs"). Ha portato nella popular music la stessa gravitas che finora era appartenuta solo ai vecchi cantanti blues o ai vecchi folksinger.
T.S. Eliot diceva che fino a venticinque anni siamo tutti poeti; poi bisogna sapere da dove si viene. E fino a venticinque anni tutti possiamo fare il cantante rock. Il punk e l'indie-rock dimostrano abbondantemente che non è necessario saper suonare o avere una voce. Dopo i venticinque bisogna diventare professionisti. Ma dopo i cinquanta si diventa noiosi. Perché a quel punto bisogna sapere da dove si viene, ma anche dove si sta andando. Dylan l'ha capito. Ha saputo elevare la disillusione della mortalità, la consapevolezza che si perde la battaglia della vita proprio vincendola, e la si vice proprio perdendola, a un livello che la popular music non aveva mai raggiunto. E la cosa straordinaria è che è stato capito, che moltissimi, semplicemente sentendo il suono della sua voce che dice "I'm walkin'" all'inizio di "Love Sick", hanno immediatamente compreso che Dylan era passato a un livello superiore, e che bisognava seguirlo.
Quanto alla frase di Ginsberg, era sicuramente accurata. Oggi la sfida, che ne so, sarebbe di realizzare grande arte nell'era di Facebook. E per questo compito, che mi pare ancora più difficile, ci vuole qualcuno che abbia vent'anni, ma non necessariamente una faccia carina, e che sia capace di dire cose taglienti come il ferro.

"Una canzone deve essere abbastanza eroica da dare l'impressione di avere fermato il tempo", ha affermato Dylan. Nella nuova edizione de "La voce di Bob Dylan", un capitolo è dedicato al tema del tempo narrativo, di cui "Tangled Up In Blue" (e più in generale molti dei brani di "Blood On the Tracks" e "Desire") rappresenta uno degli esempi più affascinanti. Che cosa ci può anticipare al riguardo?

Ho cominciato a lavorare al rapporto tra Dylan e il tempo un anno dopo l'uscita della prima edizione de "La voce di Bob Dylan", quindi il nuovo capitolo ha avuto una gestazione molto lunga. Piuttosto che riassumerlo qui, vorrei offrirne una visione tangenziale. Mi sono servito, verso la fine del capitolo, del concetto di "immagine-cristallo" elaborata da Gilles Deleuze, sulla scia di André Bazin, in riferimento al cinema e a come certe inquadrature sembrano avere la capacità di "trattenere" il tempo. L'immagine-cristallo "mostra" il tempo, lo rende percepibile nelle sue dimensioni di passato e futuro, entrambe trattenute sulla soglia dell'istante, che è e non è nel tempo, perché è sempre uno e accade sempre.
Quando Dylan girava "Renaldo And Clara" forse voleva realizzare l'intero film come una sola immagine-cristallo, e ha certamente lottato contro la costrizione di essere comunque immerso nello scorrere del tempo. Il suo modello era "Les enfants du paradis" di Marcel Carné, un film dove effettivamente vi sono dei momenti in cui la struttura narrativa si lacera, mostrando non tanto un'assenza di tempo quanto un sovrapporsi di temporalità diverse (per esempio nella scena in cui i mimi Baptiste e Nathalie si dimenticano di essere in scena in teatro e recitano sé stessi). In "Renaldo And Clara" Dylan non è riuscito neanche lontanamente a eguagliare il modello, ma ha avuto più fortuna con la canzone, che è il suo medium. La struttura narrativa di "Tangled Up In Blue" e altre canzoni degli anni Settanta ("Idiot Wind", "Isis", "Señor") contiene precisamente un tempo narrativo concepito in modo non lineare. Non sono canzoni che raccontano una storia. Raccontano piuttosto le varie possibilità che una storia può prendere, come se qualcuno stesse giocando a un videogioco nel quale deve prendere decisioni contrastanti e gestire conseguenze che lo possono portare in direzioni diversissime.


A proposito della conversione cristiana di Dylan nei primi anni Ottanta, lei ha scritto che "Dylan non fu mai così esclusivamente, ferocemente americano come nel suo periodo evangelico". Quali categorie interpretative devono essere utilizzate, secondo lei, per la lettura degli album cristiani di Dylan?
Bisogna entrare molto in profondità nell'anima americana per capire la conversione di Dylan al cristianesimo, nonché il successivo riavvicinamento all'ebraismo, che peraltro non nega la presenza cristica, la pone solo a una maggiore distanza (è ciò che Dylan ha chiamato nel 1985 il "complesso messianico", cioè il vivere come se il Messia fosse già presente). Dylan è stato tentato più volte dalla retorica profetica, quando cantava "Masters Of War" come quando cantava "Slow Train". Il periodo cristiano è a suo modo un ritorno alla canzone di protesta, un recupero della posa del poeta-profeta. In entrambi i casi la tentazione non è durata più di due anni, ed è stato un bene. Come nessuno avrebbe sopportato un Dylan in perenne stato di "protesta protestosa" (come lui l'ha definita ironicamente in un'intervista del 1966), così nessuno avrebbe mai retto un Dylan sempre col dito alzato a dirci che se non ci convertiamo finiamo all'inferno.
Dylan non è mai stato così ferocemente americano come nel periodo della conversione perché se andiamo a vederne i contenuti, in particolare nella prima e più virulenta fase, quella del 1979, constatiamo che Dylan ha abbracciato una religione suburbano-californiana nella quale c'è posto solo per la legge mosaica e per il Cristo dell'Apocalisse, quello che viene per giudicare e condannare, non per amare. È un cristianesimo senza gioia e senza Vangelo, ossessionato dall'idea del "giudizio" e da una giustizia intesa come pura violenza divina. E flirta con atteggiamenti al limite del razzismo antiarabo (in "Slow Train"), al limite dell'omofobia (in una delle sue "prediche" dal vivo), e della pura e semplice imbecillità da telepredicatore, come quando dice che uno dei maggiori problemi dell'America è la pornografia nelle scuole ("When You Gonna Wake Up?"), per non dire della sfacciata ipocrisia del prendersela con "gli adulteri in chiesa" (sempre "When You Gonna Wake Up?"), detto da uno che durante la "Rolling Thunder Revue" si giostrava quattro girlfriend più la moglie.
Ma Dylan non è uno che ragiona, è uno che si fa possedere. Da Woody Guthrie, dal blues, da Arthur Rimbaud, da Rubin "Hurricane" Carter, dalla Bibbia. Solo in anni recenti si è fatto più prudente. Ma le sue possessioni per fortuna durano poco. Già nel 1980 il messaggio religioso comincia effettivamente a diventare più cristiano, più evangelico, e un paio d'anni dopo lascia perdere tutti i toni perdicatorî per trasformarsi in un'esperienza molto più interiorizzata, come forse avrebbe dovuto essere fin dall'inizio. Ma se così fosse stato avremmo avuto Leonard Cohen e non Dylan.
E poi rimane la musica, la facilità straordinaria con la quale Dylan mescola gospel e rhythm and blues. Tra tutti i compositori ebrei-americani, solo Harold Arlen (l'autore di "Over the Rainbow", ma anche di "Get Happy" e di molte altre canzoni diciamo così interrazziali) era riuscito ad andare così vicino allo spirito della black music. Anzi, nemmeno Arlen, perché il suo punto di vista restava esterno, mentre Dylan ci si immerge completamente, parlando in prima persona a dispetto di qualunque incongruenza e anche di qualunque senso della misura. Credo che la migliore difesa delle canzoni cristiane di Dylan (e alcune, come "In The Garden", sono assolutamente magnifiche) venga proprio dai musicisti neri che le hanno incise nell'album "Gotta Serve Somebody: The Gospel Songs of Bob Dylan".

A partire da "Time Out Of Mind", la scrittura di Dylan sembra avere subito un mutamento significativo, privilegiando alla struttura narrativa l'accostamento di versi che lei stesso ha definito "completi in sé stessi", in una combinazione tra la tradizione blues degli one-line verse e una trama di rimandi e citazioni sempre più intricata. Come considera questa ennesima fase della traiettoria dylaniana?
Credo che con "Time Out Of Mind" e il massiccio ricorso agli one-liner Dylan sia entrato in una fase che, prendendo a prestito il termine dalla pittura, definirei di "alto manierismo". Con tutti i meriti che ciò comporta (il manierismo è l'arte della sopravvivenza, e la sopravvivenza dell'arte) e con tutti i rischi di regressione ad ansietà primarie che l'arte del periodo d'oro aveva risolto a prezzo di grandi fatiche.
Le canzoni recenti di Dylan oscillano tra la capacità di riattualizzare il passato, mostrandolo come un sintomo che non se ne è mai andato, e la creazione di un museo viaggiante, o magari una chiesa montata su un camion (come l'ho vista nel Nord del Texas), che il pastore guida in persona la domenica tra i villaggi e le fattorie del Panhandle per andare a pronunciare i suoi sermoni tra gente che vive sperduta nella prateria. Canzoni che parlano di canzoni. Per dire che il loro mistero non è mai stato svelato. O per non dire più nient'altro, per chiudere la porta in faccia al mondo e regredire beatamente in compagnia di una discoteca sterminata. Entrambi gli elementi sono presenti, ora si sente di più uno, ora l'altro, ma ciò che importa è l'attrito, la frizione che si crea fra le due tensioni, quella progressiva e quella regressiva.

La voce di Bob DylanSempre ne "La voce di Bob Dylan", ha scritto a proposito dei concerti del "Never Ending Tour" che Dylan "assomiglia a una sequoia che mostra l'ultimo anello, il più recente e corrugato, ma facendo capire che il nucleo più interno è ancora quello dove scorre la linfa". Pensa che nell'ultimo decennio i concerti dylaniani abbiano subito un'involuzione da questo punto di vista?
Penso di sì, anche se non mi voglio accodare a coloro che vanno a sentire venti concerti all'anno e poi scrivono chilometri di blog per lamentarsi che sono tutti uguali. Né sono d'accordo con chi sostiene che oggi Dylan è orribile dal vivo e che suona con musicisti pessimi. Comunque un'involuzione c'è stata, e credo che sia dovuta a molti motivi. La collocherei all'altezza del 2003-2004, quando Dylan inizia la fase del cosiddetto upsinging, che consiste nel ridurre le frasi musicali a un recitativo di due note, una per tutta la durata del verso più un intervallo ascendente alla fine, quasi sempre lo stesso, indipendentemente dalla canzone, dalla melodia o dal senso del testo. Se si è trattato di un esperimento, o di una sua personale forma di accostamento al rap, non l'ho capito. Trovo inascoltabile la maggior parte di quei concerti. Forse c'era una sorta di sadismo nei confronti del pubblico, che dopo minuti e minuti di upsinging veniva gratificato da un occasionale downsinging, quando cioè l'ultimo intervallo era verso il basso e non verso l'alto (e perlopiù pronunciato con un certo sarcasmo), così che si prorompeva in applausi solo perché qualcosa finalmente era cambiato.
Per fortuna anche quella fase è finita, ma sono venuti altri problemi. Fino a qualche anno fa Dylan riservava delle sorprese. Inseriva qui e là una canzone mai eseguita, o una cover inaspettata e intrigante. Da quando però è risalito in popolarità e ha cominciato ad avere un pubblico nuovo, ha forse deciso che questo pubblico doveva ascoltare le canzoni di Dylan cantate da Dylan, senza essere distratto da cose che in fondo solo gli appassionati potevano capire. Ha cominciato insomma a rivolgersi quasi esclusivamente al pubblico generico e non a quello dei suoi fan, e forse ha fatto bene in termini di popolarità, ma è ovvio che i suoi concerti sono diventati meno interessanti per chi lo conosce già. Probabilmente ci sono anche molte canzoni che, data la sua gamma vocale ormai limitata, non si sente in grado di cantare. Forse chi non ha mai sentito Dylan dal vivo oggi lo può apprezzare di più di chi ha trascorso la vita a seguire i suoi concerti, perché chi va a un suo concerto per la prima volta lo prende per quello che è oggi, senza fare paragoni impossibili con il passato.

Le canzoni di Dylan hanno da sempre uno stretto rapporto con l'immagine pittorica. Anche i dipinti di Dylan, negli ultimi tempi, hanno fatto ingresso nelle gallerie d'arte. In che senso lei ha utilizzato in relazione al rapporto tra Dylan e la pittura il concetto oraziano di ut pictura poesis?
Nella sua "Ars poetica" Orazio dice: "La poesia è come un quadro: uno ti attirerà di più se visto da vicino; un altro se visto da lontano". Per Orazio si trattava di una constatazione più che di un precetto, anche se poi la sua osservazione ebbe un'enorme fortuna nel Rinascimento. Di fatto, la comparazione istituisce una relazione a quattro fra la poesia e la pittura da un lato, e fra il tempo e lo spazio dall'altro. O, per meglio dire, un'opposizione tra la linearità irreversibile, "alfabetica" della scrittura, e la compresenza spaziale della pittura. Ma se al posto di poesia mettiamo la musica, e in questo caso la canzone, l'equazione non cambia. Anche la musica è un'arte lineare, un'arte del tempo. Per quanto possa ripetere lo stesso giro o la stessa melodia, dopo un suono viene sempre un altro suono. Se invece di ut pictura poesis diciamo ut pictura carmen, insomma, cambia ben poco.
Nel nuovo capitolo de "La voce di Bob Dylan" racconto come l'incontro avvenuto a New York nel 1974 con il pittore Norman Raeben abbia spinto Dylan a concepire canzoni come quadri, cercando di far perdere all'ascoltatore la sensazione dello scorrimento lineare del tempo. Come ha detto lo stesso Dylan in un'intervista del 1978, non ci si può sedere a tavolino e scrivere consciamente una canzone come "Highway 61 Revisited" "perché ha a che fare con l'interruzione, la rottura del tempo". Le canzoni di "Blood On The Tracks", al contrario, "contengono in se stesse la rottura del tempo, il dove-non-c'è-tempo, e cercano di mettere a fuoco il loro soggetto come una lente sotto il sole". E aggiunge Dylan: "Il vero soggetto di una canzone è necessariamente un'illusione di tempo. C'era un uomo anziano che lo sapeva, e io ho cercato di prendere da lui quello che potevo...".
Ma come si fa a trasformare una canzone in un quadro, o meglio in un'illusione di quadro? Ho mostrato che Dylan utilizza, forse senza averne piena coscienza, ma non lo sappiamo e comunque la cosa non ha importanza, alcune tecniche già impiegate dalla letteratura modernista, da Gertrude Stein a James Joyce, come ad esempio la continua alternanza dei tempi verbali e dei pronomi di prima, seconda e terza persona, che in origine sono elementi del "monologo interiore" elaborato da Joyce, e che in Dylan servono a confondere i tempi, a non far capire se la storia narrata si svolge nel presente del narratore, nel suo passato, oppure se il narratore è solo uno dei tanti "io" o "tu", "lui" o "lei" che si affacciano sulla scena. Un'altra tecnica consiste nell'immaginare una situazione iniziale vaga e insieme molto ricca di possibili sviluppi (il caso più classico è la prima strofa di "Idiot Wind", dove in quattro versi ci sono gli elementi di un romanzo) a partire dalla quale qualunque sviluppo narrativo diventa ipotizzabile. La canzone insomma va contro sé stessa, si allarga ai lati piuttosto che in avanti, cercando per quanto è possibile di mutarsi in arte dello spazio.

Avendo curato la traduzione italiana del primo volume dell'autobiografia di Dylan, "Chronicles", come ritiene che possa essere inquadrata dal punto di vista letterario la prosa dylaniana?
Non assomiglia a nessuno in particolare, anche perché spesso è una prosa pastiche, una prosa da bricolage che prende liberamente (anche troppo) da una miriade di fonti. Una caratteristica costante è l'accumulo delle espressioni idiomatiche.
Per esempio, nel passaggio in cui descrive la sua crisi d'ispirazione nella seconda metà degli anni Ottanta allinea frasi come queste: "Nel mio intimo, il mio canto mi risuonava vuoto e io non vedevo l'ora di ritirarmi e piegare le tende... Ormai ero, come si dice, sulla china discendente. Se non ci stavo attento rischiavo di ritrovarmi a gridare al muro, pieno di furia e con la bava alla bocca. Lo specchio aveva fatto un giro su se stesso e io vedevo il futuro, un vecchio attore che rovista nei bidoni della spazzatura fuori dal teatro dove una volta aveva trionfato. Era come portarsi in giro un carico di carne avariata... L'alone si era dissolto e il fiammifero era bruciato fino alla base... Per quanto mi sforzassi, le locomotive non si mettevano in moto.... Il problema era che dopo essermi affidato così tanto all'istintualità e all'intuizione, entrambe le signore si erano trasformate in avvoltoi e mi stavano dissanguando. Perfino la spontaneità era diventata una capra pazza. I miei covoni non erano ben legati al suolo e io cominciavo ad avere paura del vento".
Chi mai scrive così? Sarebbe ridicolo, se a suo modo non fosse splendido. E se non si sta attenti si possono mancare immagini assurde e insieme a loro modo perfette (che cosa mai rivela uno specchio che fa un giro su se stesso?).

Un'ultima domanda: come ha giudicato la recente performance di Dylan alla cerimonia di assegnazione dei Grammy 2011, al fianco di due formazioni indie-folk come Mumford & Sons e Avett Brothers?
Mi ha fatto molto piacere vedere Dylan circondato da musicisti giovani ed entusiasti e che, anche se con tutte le ovvie differenze, sanno di dovergli molto. Ho visto anni fa un video di Carlos Santana insieme a musicisti una o due generazioni più giovani mentre Dylan, al confronto, sembrava avere perso il contatto con la sua discendenza. Troppo strano, troppo diverso da tutti, troppo inavvicinabile. Troppo autistico, anche. Anni fa fece una tournée con Ani Di Franco come spalla, quasi certamente scelta da lui stesso, ma non le rivolse mai la parola (l'ho saputo da un'amica di Ani Di Franco). Ma l'esecuzione al Grammy ha mostrato che le cose stanno anche diversamente. Forse bisogna ringraziare Jack White, che è certamente il "nipote" di Dylan in termini musicali, per aver fatto tornare un'aura cool intorno a Dylan. O forse Dylan stesso, non lo so, ma è certamente uno sviluppo positivo.


Alessandro Carrera presenterà la nuova edizione de "La voce di Bob Dylan" insieme a Luca Cerchiari martedì 24 maggio alle ore 18.30 presso la libreria Feltrinelli di Milano, Corso Buenos Aires 33.

Discografia

Bob Dylan (Columbia, 1962)

6,5

The Freewheelin' Bob Dylan (Columbia, 1963)

8

The Times They Are A-Changin' (Columbia, 1964)

7

Another Side Of Bob Dylan (Columbia, 1964)

7

Bringing It All Back Home (Columbia, 1965)

9

Highway 61 Revisited (Columbia, 1965)

9

Blonde On Blonde (Columbia, 1966)

9

John Wesley Harding (Columbia, 1967)

7,5

Nashville Skyline (Columbia, 1969)

6

Self Portrait (Columbia, 1970)

4

New Morning (Columbia, 1970)

6

Pat Garrett & Billy The Kid (soundtrack, Columbia, 1973)

6

Dylan (Columbia, 1973)

4

Planet Waves (Asylum, 1974)

6,5

Before the Flood (live, Asylum, 1974)

6,5

Blood On The Tracks (Columbia, 1975)

8,5

The Basement Tapes (Columbia, 1975)

7

Desire (Columbia, 1976)

7,5

Hard Rain (live, Columbia, 1976)

7,5

Street Legal (Columbia, 1978)

7

At Budokan (live, Columbia, 1979)

6,5

Slow Train Coming (Columbia, 1979)

7

Saved (Columbia, 1980)

5

Shot of Love (Columbia, 1981)

5

Infidels (Columbia, 1983)

7,5

Real Live (live, Columbia, 1984)

6,5

Empire Burlesque (Columbia, 1985)

5

Biograph (anthology, Columbia, 1985)

7

Knocked Out Loaded (Columbia, 1986)

5

Dylan & the Dead (live, Columbia, 1988)

6

Down in the Groove (Columbia, 1988)

4

Oh Mercy (Columbia, 1989)

7,5

Under The Red Sky (Columbia, 1990)

6,5

The Bootleg Series, Vol. 1-3 (anthology, Columbia, 1991)

7,5

Good As I Been To You (Columbia, 1992)

7

World Gone Wrong (Columbia, 1993)

7

MTV Unplugged (live, Columbia, 1995)

7

Time Out Of Mind (Columbia, 1997)

7,5

Live 1966 (live, Columbia, 1998)

8

"Love And Theft" (Columbia, 2001)

6,5

Live 1975 (live, Columbia, 2002)

7,5

Live 1964 (live, Columbia, 2004)

6,5

No Direction Home: The Soundtrack (anthology, Columbia, 2005)

6

Modern Times (Columbia, 2006)

7

Tell Tale Signs (anthology, Columbia, 2008)

6,5

Together Through Life (Columbia, 2009)

7

Christmas In The Heart (Columbia, 2009)

4,5

The Witmark Demos: 1962-1964 (anthology, Columbia, 2010)

7

In Concert - Brandeis University 1963 (live, Columbia, 2011)

6

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Blowin' In The Wind
(live 1963)
Girl From The North Country
(live 1963)
Subterranean Homesick Blues
(da "Don't Look Back", 1965)
Like A Rolling Stone
(live 1966, da "No Direction Home")
One Too Many Mornings
(live 1969, con Johnny Cash)
 Anni Settanta
Tangled Un In Blue
(live 1975, da "Live 1975")
Shelter From The Storm
(live 1976, da "Hard Rain")
Hurricane
(live 1975)
  
 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE IN ITALIANO
AA. VV., "Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan", a cura di A. Carrera, Interlinea, 2008
A. Carrera, "La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell'America", Feltrinelli, 2001
B. Dylan, "Chronicles Volume 1", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2005
B. Dylan, "Lyrics 1962-2001", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2006
B. Dylan, "Tarantola", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2007
C. Heylin, "Jokerman. Vita e arte di Bob Dylan", trad. di S. Focacci, Tarab, 1996
G. Marcus, "Bob Dylan. La repubblica invisibile", trad. di M. Lizzardi, Arcana, 1997
G. Marcus, "Like A Rolling Stone. Bob Dylan, una canzone, l'America", trad. di A. Mecacci, Donzelli, 2005
N. Menicacci, "Bob Dylan. L'ultimo cavaliere", Hermatena, 2005
M. Murino, "Bob Dylan. Percorsi", Bastogi, 2006
A. Scaduto, "Bob Dylan", trad. di A. Gini e G. Marano, Arcana, 2003
R. Shelton, "Vita e musica di Bob Dylan", trad. di P. Merla, Feltrinelli, 1987
H. Sounes, "Bob Dylan", trad. di G. Garbellini, Guanda, 2002
P. Vites, "Bob Dylan 1962-2002. Quarant'anni di canzoni", Editori Riuniti, 2002