Bob Dylan, ovvero "l'erede designato dello spirito della terra". Parola di Alessandro Carrera, docente di Letteratura italiana alla University of Houston e da anni tra i più autorevoli esegeti dylaniani in Italia. Autore della traduzione dell'autobiografia di Dylan, "Chronicles", oltre che del monumentale corpus poetico "Lyrics 1962-2001", Carrera ha appena pubblicato una nuova edizione del suo saggio "La voce di Bob Dylan", vero e proprio affresco del rapporto tra Dylan e la cultura americana. Nessuno meglio di lui potrebbe fare da guida attraverso il lungo (e sempre imprevedibile) percorso dylaniano. Un viaggio che affonda le sue radici nell'essenza della "musica tradizionale", come Dylan stesso l'ha definita: la lingua di quella sorta di paradiso perduto che intesse l'universo mitico della tradizione folk. Perché, come scrive Carrera, "se molti possono scendere all'inferno, il compito più difficile per un poeta, il più necessario, è la descrizione del paradiso".
Ne "La voce di Bob Dylan", per rappresentare il rapporto tra Dylan e la tradizione folk, lei ha utilizzato la categoria di "poesia del tempo immemorabile" (prendendo spunto dal titolo dell'album "Time Out Of Mind"). Dylan stesso, negli ultimi anni, sembra aver voluto sintetizzare emblematicamente questa relazione, affermando in "I Feel A Change Comin' On" di avere "il sangue della terra nella voce". Vista la profondità di immedesimazione nel "tempo immemorabile" perseguita da Dylan nell'arco di tutta la propria carriera, si potrebbe dire che la voce di Dylan, ormai, è in realtà essa stessa il sangue della terra?
Eviterei connotazioni biologistiche (parole come "sangue" e "terra" evocano troppi fantasmi, forse più in italiano che in inglese...). Dylan presenta l'affermazione in un contesto che mi sembra ironico, facendo tra l'altro rimare "voice" con "Joyce" ("sto leggendo James Joyce e qualcuno mi dice che ho il sangue della terra nella voce"). Non sta dicendo "io non sono Joyce", perché questa sarebbe un'ovvietà, bensì "sono terra-terra, cercatemi dove sta la terra, il suolo dal quale nasce quel fiume ineusaribile che è la canzone americana". Un giorno o l'altro verrà compilato un atlante delle voci di Bob Dylan, degli infiniti rivoli che sono venuti a costituire la sua opera, e allora si potrà vedere che il sangue, l'acqua e la pioggia sono tutte metafore di un'opera essenzialmente "liquida", che scorre dovunque e dovunque si può raccogliere, senza gerarchie né pianificazione.
Ancora oggi, l'annoso equivoco del Dylan "cantante di protesta" stenta a morire nella vulgata comune. Soprattutto alle nostre latitudini, basta che in una canzone venga utilizzata la parola "proletariato" (come accaduto negli ultimi anni in uno dei brani di "Modern Times", "Workingman's Blues #2") per far gridare al supposto ritorno di Dylan alla politica... Qual è, a suo giudizio, la ragione del permanere così coriaceo di questa etichetta?
Se Dylan non avesse scritto le canzoni che ha scritto agli inizi degli anni Sessanta, e che all'interno del genere "canzone di protesta" sono rimaste insuperate, nessuno avrebbe nostalgia di quel periodo. L'immagine eroica che ha colpito l'immaginazione di milioni era quella del giovane, solo con la sua chitarra, che si prende l'autorità di dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Dal momento in cui Dylan si presenta in scena con un gruppo entra nella dimensione dell'Arte, ma perde quella del Bardo, che per definizione è solo. Per carità, Dylan ha dimostrato grande saggezza artistica nel lasciare la canzone di protesta prima che diventasse addomesticata, o comunque insufficiente di fronte alla complessità dei tempi (che cambiavano davvero, e molto in fretta), e non c'è da rimpiangere che non abbia scritto dieci "Blowin' In The Wind" o venti "The Times They Are A-Changin'", che non gli sarebbero venute altrettanto bene e sarebbero suonate false o noiose. Dylan peraltro non era politico neanche quando scriveva canzoni di protesta, non aveva né preparazione né coscienza politica, e il suo discorso era etico, non politico. Ma era anche un'antenna che captava quello che doveva essere captato, un sismografo vivente. A un artista non si può chiedere di più, e non perché l'artista non abbia gli stessi doveri di qualunque cittadino, ma perché come artista il suo compito non è solo di constatare e denunciare ciò che non va, ma anche di immaginare scenari, relazioni, prospettive che ancora non esistono. E questo Dylan l'ha fatto più nel suo periodo elettrico, e in quelli successivi, che in quello del cantante di protesta.
Un'altra vecchia diatriba, che non manca di tornare puntualmente alla ribalta ad ogni candidatura al premio Nobel per la letteratura, è quella del rapporto tra Dylan e la poesia. Una discussione in cui il vero equivoco sembra riconducibile al significato stesso di poesia...
Non avrei niente in contrario a vedere il premio Nobel assegnato a Dylan, ma perché mai lo dovrebbe ricevere? Se esistesse un premio Nobel per il gesto, per la voce, per la presenza scenica, per la fusione di voce, testo e musica, per l'arte della performance insomma, allora benvenuti Fo e Dylan, o magari anche Caetano Veloso, ma la letteratura è un'altra cosa. Non perché sia di per sé superiore alla canzone, intendiamoci bene. Ci sono parecchi premi Nobel il cui nome lo dimentichiamo subito, mentre di Dylan non ci dimenticheremo, ma quello che Dylan fa non è letteratura. Assegnargli il premio Nobel per la letteratura negherebbe quella che è la sua caratteristica principale e assolutamente unica, cioè la sua profonda oralità, il fatto che tutto ciò che Dylan fa è una voce, viene dalla voce e ritorna alla voce. Dylan canta sempre, anche quando parla, risponde alle interviste, presenta canzoni nel suo programma alla radio o scrive la sua autobiografia. Un premio alla letteratura lo ridurrebbe a essere un poeta neanche tanto meglio di altri poeti, mettendo in ombra quello che è il suo vero contributo, di avere creato un'arte che spesso si fonda su una vera e propria rivolta contro la scrittura (avendolo tradotto pressoché tutto, penso di poterlo dire).La critica musicale tende a porre gli album della cosiddetta "trilogia elettrica" al vertice della discografia dylaniana. A suo avviso, è quella l'ultima fase in cui Dylan ha partecipato in qualche misura allo zeitgeist musicale del proprio tempo? Che cosa pensa dell'affermazione di Allen Ginsberg secondo cui la "svolta elettrica" sarebbe consistita in primis nella sfida di "vedere se la grande arte può essere realizzata per mezzo di un jukebox"?
Senz'altro Dylan è riuscito a recuperare lo spirito dei tempi con l'ultima trilogia, o quadrilogia che dir si voglia. Molti considerano "Time Out Of Mind", "Love And Theft" e "Modern Times" una trilogia, anche se, dal punto di vista del sound, probabilmente "Times Out Of Mind" sta per conto suo per via della produzione di Daniel Lanois, mentre la vera trilogia se mai è costituita da "Love And Theft", "Modern Times" e "Together Through Life" (che non è un disco così minore come sembra). Credo comunque che Dylan abbia saputo incidere nel tempo presente soprattutto con "Time Out Of Mind" e "Love And Theft", più varie canzoni dai dischi successivi (incluso "Tell Tale Signs"). Ha portato nella popular music la stessa gravitas che finora era appartenuta solo ai vecchi cantanti blues o ai vecchi folksinger.
T.S. Eliot diceva che fino a venticinque anni siamo tutti poeti; poi bisogna sapere da dove si viene. E fino a venticinque anni tutti possiamo fare il cantante rock. Il punk e l'indie-rock dimostrano abbondantemente che non è necessario saper suonare o avere una voce. Dopo i venticinque bisogna diventare professionisti. Ma dopo i cinquanta si diventa noiosi. Perché a quel punto bisogna sapere da dove si viene, ma anche dove si sta andando. Dylan l'ha capito. Ha saputo elevare la disillusione della mortalità, la consapevolezza che si perde la battaglia della vita proprio vincendola, e la si vice proprio perdendola, a un livello che la popular music non aveva mai raggiunto. E la cosa straordinaria è che è stato capito, che moltissimi, semplicemente sentendo il suono della sua voce che dice "I'm walkin'" all'inizio di "Love Sick", hanno immediatamente compreso che Dylan era passato a un livello superiore, e che bisognava seguirlo.
Quanto alla frase di Ginsberg, era sicuramente accurata. Oggi la sfida, che ne so, sarebbe di realizzare grande arte nell'era di Facebook. E per questo compito, che mi pare ancora più difficile, ci vuole qualcuno che abbia vent'anni, ma non necessariamente una faccia carina, e che sia capace di dire cose taglienti come il ferro.
"Una canzone deve essere abbastanza eroica da dare l'impressione di avere fermato il tempo", ha affermato Dylan. Nella nuova edizione de "La voce di Bob Dylan", un capitolo è dedicato al tema del tempo narrativo, di cui "Tangled Up In Blue" (e più in generale molti dei brani di "Blood On the Tracks" e "Desire") rappresenta uno degli esempi più affascinanti. Che cosa ci può anticipare al riguardo?
Ho cominciato a lavorare al rapporto tra Dylan e il tempo un anno dopo l'uscita della prima edizione de "La voce di Bob Dylan", quindi il nuovo capitolo ha avuto una gestazione molto lunga. Piuttosto che riassumerlo qui, vorrei offrirne una visione tangenziale. Mi sono servito, verso la fine del capitolo, del concetto di "immagine-cristallo" elaborata da Gilles Deleuze, sulla scia di André Bazin, in riferimento al cinema e a come certe inquadrature sembrano avere la capacità di "trattenere" il tempo. L'immagine-cristallo "mostra" il tempo, lo rende percepibile nelle sue dimensioni di passato e futuro, entrambe trattenute sulla soglia dell'istante, che è e non è nel tempo, perché è sempre uno e accade sempre.
Quando Dylan girava "Renaldo And Clara" forse voleva realizzare l'intero film come una sola immagine-cristallo, e ha certamente lottato contro la costrizione di essere comunque immerso nello scorrere del tempo. Il suo modello era "Les enfants du paradis" di Marcel Carné, un film dove effettivamente vi sono dei momenti in cui la struttura narrativa si lacera, mostrando non tanto un'assenza di tempo quanto un sovrapporsi di temporalità diverse (per esempio nella scena in cui i mimi Baptiste e Nathalie si dimenticano di essere in scena in teatro e recitano sé stessi). In "Renaldo And Clara" Dylan non è riuscito neanche lontanamente a eguagliare il modello, ma ha avuto più fortuna con la canzone, che è il suo medium. La struttura narrativa di "Tangled Up In Blue" e altre canzoni degli anni Settanta ("Idiot Wind", "Isis", "Señor") contiene precisamente un tempo narrativo concepito in modo non lineare. Non sono canzoni che raccontano una storia. Raccontano piuttosto le varie possibilità che una storia può prendere, come se qualcuno stesse giocando a un videogioco nel quale deve prendere decisioni contrastanti e gestire conseguenze che lo possono portare in direzioni diversissime.
Bob Dylan (Columbia, 1962) | 6,5 | |
The Freewheelin' Bob Dylan (Columbia, 1963) | 8 | |
The Times They Are A-Changin' (Columbia, 1964) | 7 | |
Another Side Of Bob Dylan (Columbia, 1964) | 7 | |
Bringing It All Back Home (Columbia, 1965) | 9 | |
Highway 61 Revisited (Columbia, 1965) | 9 | |
Blonde On Blonde (Columbia, 1966) | 9 | |
John Wesley Harding (Columbia, 1967) | 7,5 | |
Nashville Skyline (Columbia, 1969) | 6 | |
Self Portrait (Columbia, 1970) | 4 | |
New Morning (Columbia, 1970) | 6 | |
Pat Garrett & Billy The Kid (soundtrack, Columbia, 1973) | 6 | |
Dylan (Columbia, 1973) | 4 | |
Planet Waves (Asylum, 1974) | 6,5 | |
Before the Flood (live, Asylum, 1974) | 6,5 | |
Blood On The Tracks (Columbia, 1975) | 8,5 | |
The Basement Tapes (Columbia, 1975) | 7 | |
Desire (Columbia, 1976) | 7,5 | |
Hard Rain (live, Columbia, 1976) | 7,5 | |
Street Legal (Columbia, 1978) | 7 | |
At Budokan (live, Columbia, 1979) | 6,5 | |
Slow Train Coming (Columbia, 1979) | 7 | |
Saved (Columbia, 1980) | 5 | |
Shot of Love (Columbia, 1981) | 5 | |
Infidels (Columbia, 1983) | 7,5 | |
Real Live (live, Columbia, 1984) | 6,5 | |
Empire Burlesque (Columbia, 1985) | 5 | |
Biograph (anthology, Columbia, 1985) | 7 | |
Knocked Out Loaded (Columbia, 1986) | 5 | |
Dylan & the Dead (live, Columbia, 1988) | 6 | |
Down in the Groove (Columbia, 1988) | 4 | |
Oh Mercy (Columbia, 1989) | 7,5 | |
Under The Red Sky (Columbia, 1990) | 6,5 | |
The Bootleg Series, Vol. 1-3 (anthology, Columbia, 1991) | 7,5 | |
Good As I Been To You (Columbia, 1992) | 7 | |
World Gone Wrong (Columbia, 1993) | 7 | |
MTV Unplugged (live, Columbia, 1995) | 7 | |
Time Out Of Mind (Columbia, 1997) | 7,5 | |
Live 1966 (live, Columbia, 1998) | 8 | |
"Love And Theft" (Columbia, 2001) | 6,5 | |
Live 1975 (live, Columbia, 2002) | 7,5 | |
Live 1964 (live, Columbia, 2004) | 6,5 | |
No Direction Home: The Soundtrack (anthology, Columbia, 2005) | 6 | |
Modern Times (Columbia, 2006) | 7 | |
Tell Tale Signs (anthology, Columbia, 2008) | 6,5 | |
Together Through Life (Columbia, 2009) | 7 | |
Christmas In The Heart (Columbia, 2009) | 4,5 | |
The Witmark Demos: 1962-1964 (anthology, Columbia, 2010) | 7 | |
In Concert - Brandeis University 1963 (live, Columbia, 2011) | 6 |
Sito ufficiale | |
Testi e traduzioni | |
Foto | |
Sito italiano | |
VIDEO | |
Anni Sessanta | |
Blowin' In The Wind (live 1963) | |
Girl From The North Country (live 1963) | |
Subterranean Homesick Blues (da "Don't Look Back", 1965) | |
Like A Rolling Stone (live 1966, da "No Direction Home") | |
One Too Many Mornings (live 1969, con Johnny Cash) | |
Anni Settanta | |
Tangled Un In Blue (live 1975, da "Live 1975") | |
Shelter From The Storm (live 1976, da "Hard Rain") | |
Hurricane (live 1975) | |
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE IN ITALIANO | |
AA. VV., "Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan", a cura di A. Carrera, Interlinea, 2008 | |
A. Carrera, "La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell'America", Feltrinelli, 2001 | |
B. Dylan, "Chronicles Volume 1", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2005 | |
B. Dylan, "Lyrics 1962-2001", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2006 | |
B. Dylan, "Tarantola", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2007 | |
C. Heylin, "Jokerman. Vita e arte di Bob Dylan", trad. di S. Focacci, Tarab, 1996 | |
G. Marcus, "Bob Dylan. La repubblica invisibile", trad. di M. Lizzardi, Arcana, 1997 | |
G. Marcus, "Like A Rolling Stone. Bob Dylan, una canzone, l'America", trad. di A. Mecacci, Donzelli, 2005 | |
N. Menicacci, "Bob Dylan. L'ultimo cavaliere", Hermatena, 2005 | |
M. Murino, "Bob Dylan. Percorsi", Bastogi, 2006 | |
A. Scaduto, "Bob Dylan", trad. di A. Gini e G. Marano, Arcana, 2003 | |
R. Shelton, "Vita e musica di Bob Dylan", trad. di P. Merla, Feltrinelli, 1987 | |
H. Sounes, "Bob Dylan", trad. di G. Garbellini, Guanda, 2002 | |
P. Vites, "Bob Dylan 1962-2002. Quarant'anni di canzoni", Editori Riuniti, 2002 |