“Il mondo non ha bisogno di nuove canzoni”, aveva affermato Bob Dylan alle porte degli anni Novanta. “A meno che non spunti fuori qualcuno con un cuore puro e qualcosa da dire. Allora è tutta un’altra storia”.
Per anni, Dylan ha cercato invano di inseguire un tempo con cui ormai non aveva ormai più nulla a che vedere. Poi, un giorno, tutto è divenuto chiaro: il suo destino è sempre stato quello di appartenere ad un altro mondo, il “time out of mind”, il tempo immemorabile della tradizione, di quella che Greil Marcus ha definito la “repubblica invisibile”. E da allora tutto è cambiato.
L’ottavo volume delle “Bootleg Series” dylaniane si propone fin dal titolo di esplorare i segni rivelatori dell’immersione in quel pozzo ancestrale, raccogliendo inediti e rarità disseminati tra il 1989 ed il 2006. Ma nonostante il fascino degli intenti, il rischio è quello che tutto si risolva semplicemente in uno svuotamento non troppo ponderato degli archivi.
Due album dominano il periodo affrontato da “Tell Tale Signs”: “Oh Mercy” e “Time Out Of Mind”, gli unici dischi realizzati da Dylan negli ultimi vent’anni a poter sostenere il paragone con i capolavori degli anni Sessanta e Settanta. Merito anche del decisivo apporto di Daniel Lanois, l’ultimo grande produttore capace di tenere testa a Mr. Zimmerman e di condurlo a trarre il meglio dalla propria volubile musa. “Lanois era un concetto che cammina”, ricorda Dylan nella propria autobiografia. “Non si accontentava di galleggiare in superficie. Non gli bastava nemmeno nuotare. Voleva tuffarsi e scendere in profondità. Voleva sposare una sirena”.
Le rivelazioni più attese provengono allora dalle session di “Time Out Of Mind”, a cominciare dalla nostalgica elegia di “Red River Shore”, che cresce di fascino con il progressivo entrare in scena degli strumenti, dall’organo al dobro, dalle percussioni alla fisarmonica. Le acque del fiume sono le stesse che vennero cantate dal Kingston Trio, ma la storia che raccontano è un’altra: il profilo della fanciulla che si staglia in controluce sulla riva sembra impalpabile come quello di uno spettro, un’irraggiungibile memoria di Euridice, quasi un contraltare femminile dell’oscuro amante tornato dall’Ade di “Man In The Long Black Coat”. È possibile fare esperienza del mistero in terra? “Ho sentito di un tizio che è vissuto molto tempo fa”, mormora Dylan, “Un uomo pieno di tristezza e di contrasti / Se qualcuno intorno a lui moriva / Lui sapeva come riportarlo alla vita / Non so che tipo di linguaggio usasse / O se accadono ancora cose di questo tipo / A volte penso che nessuno mi abbia mai visto / Eccetto la ragazza della riva del Red River”.
La scrittura di Dylan, a partire da “Time Out Of Mind”, si basa sull’accostamento di brevi epigrammi, dotati ciascuno di vita propria, secondo una tecnica tipica della cultura orale del blues. Ecco allora affiorare negli inediti di “Tell Tale Signs” versi poi confluiti nei brani pubblicati sugli album ufficiali del songwriter di Duluth, in un gioco di rimandi che introduce al cuore stesso del suo processo creativo.
È il caso di “Marchin’ To The City”, sorta di basement tape apocrifo che si dipana intorno al tema del pellegrinaggio, la cui eco si può facilmente ritrovare in “‘Til I Fell In Love With You”: “Signore abbi pietà / Mi sento pesante come piombo / Sono stato colpito troppo duramente / Ho visto troppe cose / Niente più mi può guarire / Tranne il tuo tocco”. Dylan sfodera il suo tono più magnetico e notturno in “Dreamin’ Of You”, che si muove sinuosa tra organo e pianoforte: “Per anni mi hanno tenuto chiuso in una gabbia / Poi mi hanno buttato su un palcoscenico / Alcune cose durano più a lungo di quanto pensi / E non hanno mai spiegazione”. E “Mississippi”, regalata a Sheryl Crow e quindi recuperata in “Love And Theft”, viene proposta in ben due versioni, la prima delle quali, affidata alla limpida chitarra di Lanois, avvince con la sua perfetta semplicità.
Dagli anfratti segreti della lavorazione di “Oh Mercy” giunge una “Most Of The Time” per chitarra acustica e armonica che sembra provenire dalle pagine di “Blood On The Tracks”. “Dignity” oscilla tra la nudità di un demo pianistico ed un inatteso andamento rockabilly, mentre “Born In Time” e “God Knows” (escluse da “Oh Mercy” per poi essere riprese in “Under The Red Sky”) mostrano un più profondo spessore rispetto alle interpretazioni già note. Quello delle alternate take, tuttavia, rimane in sostanza un gioco per cultori della materia, che finisce per mostrare facilmente la corda di fronte a versioni tutto sommato superflue come quelle di “Everything Is Broken” e “Series Of Dreams” incluse in “Tell Tale Signs”.
A rendere più accattivante la confezione, vengono ripresi anche alcuni brani inclusi negli ultimi anni in varie colonne sonore, da “Tell Ol’ Bill”, scandita con vibrante efficacia dal pianoforte e dal basso del fido Tony Garnier, fino al passo marziale di “‘Cross The Green Mountain”, in cui Dylan dipinge la Guerra di Secessione con voce degna di un antico cantore. Non potevano mancare, poi, le incursioni nelle radici folk del passato, dall’omaggio a Robert Johnson di “32-20 Blues” al traditional “The Girl On The Greenbriar Shore”: “quelle vecchie canzoni sono il mio vocabolario e il mio libro delle preghiere”, confessa Dylan in un’intervista riportata nelle liner notes dell’album.
Difficile comprendere, invece, quale sia il senso dell’inclusione piuttosto casuale, tra le tracce del disco, di alcuni episodi live più o meno recenti, tra cui si distingue una “High Water (For Charley Patton)” dalla sulfurea elettricità. Piuttosto che estrarre un unico brano (“Ring Them Bells”) dalle celebri performance del 1993 al Supper Club di New York, sarebbe stato probabilmente più lungimirante lasciare spazio ad una pubblicazione integrale di quello che rappresenta una vera e propria pietra miliare del “Neverending tour”. Lo stesso vale per le cosiddette “Bromberg session”, un intero disco di classici folk precedente a “Good As I Been To You” rimasto tuttora inedito, da cui viene pescata a sorte solo l’incantevole “Miss The Mississippi”, condotta da un’orchestrina country a base di armonica, fiddle, mandolino e fiati.
Insomma, nonostante tra le ventisette tracce di “Tell Tale Signs” si nascondano vere e proprie gemme, a lasciare perplessi è l’operazione discografica nel suo complesso: un’impressione rafforzata ancor più dalla deluxe edition dell’album (venduta in esclusiva sul sito ufficiale dell’artista), che per il modico prezzo di 129,99 dollari aggiunge un’ulteriore disco di versioni alternative, brani dal vivo e scarti assortiti…
Inutile negarlo, “Tell Tale Sign” è un prodotto per fan. Ma i fan, si sa, per una “Red River Shore” sono pronti a perdonare a Dylan questo ed altro.
06/10/2008