Non vuole seratе di gala
Una drama queen in sala
Voglio le serate struccata
Melodrama, meno dramma
Da nome emergente di un pop italiano che sta cercando di reinventarsi dopo un decennio di hit trap, Angelina Mango è diventata una presenza ubiquitaria di
reel, pagine di gossip,
webzine generaliste e musicali. Il momento di passaggio è stato
Sanremo 2024, da cui è uscita vittoriosa ai danni di
Geolier: nella teoria del complotto, lei, fin troppo benvoluta dalle giurie, avrebbe avuto un ingiusto vantaggio su di lui, assurto a idolo partenopeo e per estensione del popolo tutto.
A prescindere da una narrazione manichea e caricaturale, Angelina Mango ha la forza di un'immagine diversa dai modelli imperanti: non è una panterona come
Elodie né un'ammiccante
Annalisa, nomi peraltro meno attraenti per gli
young adults; d'altra parte, non risponde neanche all'immagine della
rapper-trapper delicatissima impersonata negli ultimi anni da Anna Pepe, nostra piccola
Nicki Minaj. Ha un cognome che parla chiaramente alla generazione dei suoi genitori e una genuinità che mal si affianca alle scelte coreografate, patinate,
marketing oriented dei nomi citati.
A riascoltare il breve "Monolocale" del 2020, mortalmente noioso, e l'appena più divertente Ep "Voglia di vivere" (2023), si rischia solo di confondersi: questo "Poké Melodrama" è sostanzialmente un esordio e una prova del fuoco, la fotografia (rigorosamente in 4:5) di una ventitreenne che appare ancora un po' sgraziata e confusa, ma anche capace di raccontarsi, nei suoi tormenti post-adolescenziali e nei suoi traumi, in canzoni vivaci e, nel migliore dei casi, piene di contrasti.
Il problema di "Poké Melodrama" è che contiene quattordici brani e non tutti scartano dal solito pop italiano: la ballata "Gioielli di famiglia" non solo è zavorrata da un testo con momenti di banalità inaccettabile ma anche da un arrangiamento orchestrale ritrito; il duetto con Mengoni in "Uguale a me" è puro
cliché tra vocalizzi e testo sofferto e quello con
Bresh, acustico e pop-rap, è inservibile dopo il biennio delle superiori; "Edmund e Lucy" è una ballata pianistica che fatica a non diventare patetica.
Quando emerge invece una popstar diversa, ancora da sgrezzare ma carismatica, come nell'
urban un po' tribale e un po' meridionale di "Melodrama" e nella già conosciutissima "La noia", con l'arrangiamento affollato e il testo dolceamaro (e quel momento
a cappella che è di una sfrontatezza ammirevole) si scopre che è possibile ascoltare qualcosa con del carattere.
Certamente si può scivolare verso il
kitsch, come in "Crush" e "Cup Of Tea", ma anche nel folk-pop globalizzato misto
Rosalia "Che t'o dico a fa'": un cattivo gusto forse irricevibile per chi è negli anta eppure proprio per questo interessante, acerbo e disordinato com'è.
"Poké Melodrama" è meglio quando è
pokè, un mix sfrontato di stili pop alla rinfusa in cui gettare
mood diversi, che quando si concentra troppo sul
melodrama, una specialità in cui i testi immaturi danneggiano troppo il risultato finale e dove l'affollamento di produttori conduce a brani disomogenei e stereotipati.
C'è da sperare che il futuro punti sugli aspetti più distintivi, senza cercare una scorciatoia nella banalità pop più sciatta, tipo quella della conclusiva "Another World" (feat. VillaBanks). Un album da scattivare.
05/06/2024