Leviamocelo subito 'sto dente. Dal ritorno dei Cosang, quindici anni suonati dopo "Vita bona" durante i quali Luché e Ntò (pur non standosene con le mani in mano) hanno tenuto i propri percorsi separati, ci si aspettava di più. Un bel po' in più. Perché "Chi more pe' mme" fu un punto nodale per l'hip-hop italiano, un colpo da ko da far sembrare gli interpreti contemporanei della cultura g-rap italiana dei damerini tutti tatuaggi e niente arrosto. Senz'altro (se non consideriamo alcune forme hip-hop più contaminate e rivolte alla scena urban) l'ultimo grande disco rap in napoletano. Un lavoro pubblicato lo stesso anno di "Gomorra", che ci portò tra le vele di Scampia (i Cosang sono della confinante Marianella) ancor prima che il libro di Saviano potesse diventare un caso.
Dal ritorno insieme di due interpreti così, ormai quarantenni, data anche la risolutezza con la quale sono stati lontani l'un dall'altro così a lungo, era dunque lecito attendersi tutt'altra sorta di urgenza e (possibilmente) maturità. Invece "Dinastia", pur risultando un prodotto godibile e ben confezionato dal primo all'ultimo beat, suona come la più innocua delle rimpatriate.
L'effetto è ancora più forte alla luce di un inizio lungo due brani cupo, sghembo e ficcante, che illude e alza le aspettative, mostrando l'album che sarebbe potuto essere. Tra fumosi campionamenti da far west urbano e boom bap secchi e recalcitranti, "Nu creature in'to munno" e "Carne e ossa" ci riportano dritti dritti dove ci innamorammo del duo, "Int'o rion".
Purtroppo la musica cambia decisamente già dalla successiva "Nun è mai fernut", dove il duo inizia una spasmodica ricerca del ritornello facile e inizia a indulgere in basi più morbide e ruffiane.
"Cchiù tiempo" inaugura una serie di ospitate d'oro: qui Antonio e Luca cantano con i Club Dogo e il nutrito gruppo sembra più interessato a ricordare i vecchi tempi piuttosto che a dire qualcosa. Fa però ancora peggio Liberato, chiamato a produrre un inserto che sembra la sua versione "ChatGPT fammi un feat. con Liberato". Meno irritante ma altrettanto innocuo l'intervento di Geolier, che con il suo solito grande ritornello sembra raccogliere il testimone di portabandiera della scena rap napoletana.
Solo Marracash riesce a portare davvero qualcosa al disco, in una "Carnicero" tesa e ossessiva, con i tre intenti a sciorinare rime azzeccate e pose gangsta. Queste ultime ritornano un po' goffamente in diversi altri frangenti come "Nu cuofn 'e sord" e "Vincente", qui insieme all'inevitabile stoccata a hater e invidiosi.
E niente, "Dinastia" non è un cattivo disco. Alcune sue sezioni lasciano ancora il segno, mostrando una capacità di raccontare la Napoli più difficile con l'efficacia e la disillusa cattiveria di un tempo. Il resto è però tutto troppo annacquato e auto-pilotato per indurci a segnalare l'opera come un ritorno davvero meritevole e segnante.
05/09/2024