In un'intervista pubblicata proprio in questi giorni sulle nostre pagine, Kelly Lee Owens ha dichiarato che la realizzazione di un disco come "Dreamstate", il suo quarto, non sarebbe stata possibile se prima non fosse passata per un episodio della discografia più riflessivo e statico. È quindi tra le atmosfere fumose e circolari di "LP.8" che la producer gallese ha ri-scoperto una sicurezza dei propri mezzi e una consapevolezza tali da accettare, e in una certa misura godersi, anche la propria vulnerabilità.
Appare chiaro sin dai primissimi rombi elettronici del disco che si tratta del lavoro più sbrigliato registrato finora dall'artista, di quello più pestone ed esuberante. Che forse proprio per queste ragioni non riesce a eguagliare la grandiosità celestiale del capolavoro dream techno "Inner Song" (Smalltown Supersound, 2020) e che, però, proprio perché un po' "svergognato", riesce a raggiungere momenti di enorme libertà e irresistibile vivacità.
È emozione pura, ad esempio, l'introduzione affidata a "Dark Angel", che prima ancora dei battiti rapisce con una sfrontata mistura di sintetizzatori chillwave e nostalgiche reminiscenze europop. La title track è un siluro techno a carburazione lenta che ci conduce al consueto rave tra le nuvole utilizzando come propellente il fuoco della scena rave inglese anni 90 (Orbital e Underworld su tutti) - è qui che si fa sentire con grande eloquenza la mano del fratello chimico Tom Rowland, chiamato a produrre il disco insieme a Bicep e George Daniel. Ancora più ammiccante è "Love You Got", mina dance memore della lezione più recente dei Disclosure, alla quale fa seguito la deep house rarefatta e addobbata di pianoforte "Higher".
Altri numeri dance come "Sunshine" e "Time To" iniziano le loro cavalcate più timidamente, ma, specie nel caso della prima, si rifanno con vivaci finali all’insegna della trance. La vulnerabilità sopracitata emerge invece nel trio di brani composto da "Trust & Desire", "Ballad" e "Air". Qui la sincerità e il canto sospiroso della Owens sposano la sua passione mai sopita per i sintetizzatori analogici, pronti a tradurre l'anima dell'artista in vibrazioni rapinose.
A conti fatti, si tratta del primo disco votato (quasi) interamente alla dance per Kelly Lee Owens. E da questo punto di vista, grazie anche ai collaboratori coinvolti, si tratta di una scommessa vinta.
L'equilibrio alchemico tra le parti eteree e quelle dominate dai beat raggiunto da KLO in "Inner Song", qui è però retaggio soltanto di frangenti isolati. La cosa non rappresenta necessariamente un male, è amaro in bocca lasciato dalle aspettative. Che, dopo 4 dischi così diversi tra loro, faremmo bene a lasciar perdere. Pensando solo a ballare, ancora una volta, con la testa tra le nuvole.
17/10/2024